L’altra
riva |
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Questa rubrica tocca vari aspetti del problema della morte nelle diverse culture e religioni. Indice delle proposte di lettura:
Diritto
a vivere, obbligo a morire Suicidio di massa per la cometa Sali a nascere con me fratello Il lutto, la giustizia, la conoscenza i testi precedenti sono stati PUBBLICATI SU L'ECO DEL CHISONE NEL 96-97
seguì una serie curata dall'Associazione Raphael
altri testi successivi Fantasia IN CIMITERO .PDF- il manifesto Bonhoeffer pdf Testo L'uomo e il suo patire - link Alex Langer -htm A JANITZIO LA MORTE NON FA PAURA - htm- n+1 Nostro fratello Giuda -Primo Mazzolari Isolotto-pdf Dialogo sulla vita-Martini pdf Guilbert-htm Perversioni pdf d.Borghi htm Ricordi alla sepoltura di Giovanni Giolito: Franco Barbero ( c. di Base), Giulio Giordano (ex partigiano GL) http://www.fondazionealdorossi.org/opere/1970-1979/cimitero-di-san-cataldo-modena-1971-1978-2/ per Berlinguer: Lino Guanciale a sostegno di bambini rifugiati e sfollati (youtube.com) murgia https://rbe.it/2023/09/21/torino-spiritualita-questanno-affronta-il-tema-della-morte/
Vittime della società dello scarto https://www.macondo.it/2021/compresenza-dei-morti-e-dei-viventi/ Daniele Lugli
Letture : dalla prefazione al libro di Enzo
Bianchi, “Vivere la morte” Gribaudi, 1983. “Nella nostra esistenza la morte resta l’evento
ineluttabile per eccellenza, anche se oggi si vive come se si fosse immortali.
Da alcuni decenni noi cristiani assistiamo passivamente,, fino ad essere
complici di questa nuova forma di mondanità dominante, a un occultamento della
morte e a una rimozione di questa realtà dal nostro vivere quotidiano. E’ una
vergogna e un tradimento della vocazione ricevuta nel battesimo, che è
immersione nella morte, e non in una qualsiasi morte, ma nella morte del
Signore.(...) Ma già si avvertono le reazioni a questa situazione:
la morte ritorna magari come morte in diretta, gettata in pasto a milioni di
telespettatori, mercificata e quindi ancora una volta esorcizzata perchè
espropriata al morente per
soddisfare un voyeurismo di massa. I cristiani dovrebbero cessare il loro complotto di
silenzio su questo tema e, ristabilendo all’interno della loro spiritualità
la memoria mortis, dovrebbero riappropriarsi di questo evento formidabile in cui
è stata posta l’epifania della Croce. Rigettare e occultare la morte
significa infatti disobbedire alla radicale sequela di Gesù Signore e non
esercitarsi all’arte del morire con Cristo per risuscitare con lui alla vita
per sempre. E’ necessario per il cristiano vivere la morte e
imparare a morire fino a fare della morte l’atto volontario, l’atto supremo
della vita, l’atto di amore, di fede, di abbandono nel Dio dei viventi e non
dei morti. (...) Nessuno di noi conosce le modalità della propria morte: .a quando ci sarà annunciata, se il Signore ci libererà dalla morte subitanea ed improvvisa, ognuno di noi possa dire nella fede come Papa Giovanni : ‘Mi rallegro perchè mi è stato detto: Andremo alla dimora del Signore !’.” L’altra
riva. Forse non ci
rendiamo conto che l’atteggiamento nei confronti del morente, che oggi
conosciamo, è cambiato profondamente rispetto ai secoli passati, quando la
famiglia patriarcale e un diverso rispetto per l’anziano permettevano una sua
“gestione” degli ultimi momenti della vita... I familiari, che hanno dal morente l’affidamento
della sua sorte, lo affidano, a loro volta, in gran parte, alla struttura
ospedaliera. Questo sopratutto nelle società dove si può trovare, secondo il
diritto, il posto all’ospedale senza bisogno di mendicarlo. Diversa è la
sorte di gran parte del resto del mondo. Tuttavia, anche nelle società più organizzate e
strutturalmente efficienti, l’ammalato è trattato come un caso, come un
numero della corsia ed è soggetto alla “tecnica di salvezza”. Gli orari,
pur quando tutto va bene, sono rigidi, e questo per necessità di struttura; gli
interventi dei sanitari e i rapporti con l’equipe creano un senso di
anonimato, di solitudine, proprio quando il soggetto ha più bisogno di
comunione e avverte maggiormente l’esigenza di espressioni affettive, comunque
personalizzate. Tutto attorno al morente oggi tende a svolgersi in
chiave di clandestinità; siamo passati dal “nuntius mortis” del passato ,
al “silentium mortis”, anzi alla dissimulazione, anche quando il morente dà
a vedere che conosce la situazione. Il malato grave che già dalla struttura viene
ricacciato nello stadio della regressione per
la carenza di rapporti primari, vien qui ridotto a minorenne sotto tutela,
separato, con una cortina di menzogna, dal suo diritto di informazione e di
libertà. L’affidamento ai propri cari, iniziato nel secolo XIX è oggi giunto
al culmine perchè, in nome del non-turbamento, si depaupera l’uomo
dell’occasione suprema di vivere un suo diritto sacro: “E’ privato,
dichiara Ariès, dei suoi diritti, e in particolare, del diritto, un
tempo fondamentale, di conoscere la propria morte, di prepararla, di
organizzarla “. Letture: Philippe Ariès,
“La storia della morte in Occidente”, Rizzoli 1978 ; “L’uomo e la
morte dal Medioevo ai nostri giorni”, 1980, Laterza-Bari L’altra
riva La psicanalista americana E.Kubler Ross sostiene
sulla base della sua lunga esperienza che il parlare della morte in un modo
appropriato reca sollievo sia al morente che agli altri. Ma osserva che non è
possibile fare quest’approccio se non si conoscono le tappe attraverso le
quali passa il morente quando comincia l’intuizione della sua fine. E come
nell’età evolutiva tutte le fasi sono necessarie, anche quelle che sembrano
provvisoriamente negative, così in tale intuizione, fino alla celebrazione
della morte. C’è una prima tappa: l’illusione e la negazione:il
soggetto razionalizza il suo caso e pensa che la morte sia una realtà che
appartiene agli altri. La seconda tappa è caratterizzata da un
atteggiamento di aggressione: il malato si mostra duro, minaccioso e scontroso.
E’ una reazione non tanto contro le persone, i familiari, i sanitari ma è
diretta piuttosto contro quei valori che essi rappresentano e che a lui sono
negati, anzitutto la salute. Segue la fase del “mercanteggiamento”,
come si esprime la Kubler Ross. Il malato, cosciente ormai del suo stato, si
aggrappa a tutte le risorse per guarire. Si rimette, in regime di dipendenza
quasi totale dagli altri, a patteggiare la salute in cambio della sottomissione
e degli onori resi alla Divinità e a quanti l’assistono. Subentra poi la fase dello scoraggiamento, della
delusione.
Il soggetto diventa più taciturno, rifugge la compagnia, ha crisi più
frequenti di pianto. Qui l’atteggiamento di chi assiste il malato, dice la
sperimentatrice che ha fatto l’oculata assistenza a migliaia di morenti, deve
essere quello di empatia-comunione Infine l’ultima fase è l’accettazione
che è rassegnazione, pacificazione o addirittura sublimazione nella fede a
seconda dei casi. Insomma è urgente che il rapporto sia personalizzato al
massimo, con gesti, con segni, con sguardi, fatti di tenerezza e di viva
partecipazione. La comunione sia visibilizzata, al mano nella mano. In questo
clima non ha più senso chiedermi: dirò la verità al morente? Devo piuttosto
domandarmi: come posso condividere col morente amato quanto io so? Attraverso
l’empatia indubbiamente. Letture: E.Kubler Ross “La morte e il morire” Cittadella, Assisi, 1976 L’altra riva Questo secolo ha visto morire nelle guerre molte
decine di milioni di persone, in prevalenza civili. La morte individuale riesce
ancora a vederci coinvolti ma stentiamo a renderci conto e a reagire di fronte
alla morte di massa... Tutti i diritti, i riti di cui abbiamo parlato in questa
rubrica, sono solo per una ristretta parte dell’umanità che vive nel
benessere. Per gli altri, vera sovrappopolazione lasciata decimare da guerra,
fame e malattia, resta solo un fugace passaggio sugli schermi TV nei
telegiornali... Letture. Padre
Alessandro Zanotelli “La morte Promessa”. Publiprint “L’Ufficio
internazionale del lavoro parla di cento milioni di disoccupati, se si
aggiungono le persone che fanno un lavoro precario o nero, arriviamo a ottocento
milioni. Sempre l’ONU
parla di cento milioni di senza tetto che vivono sotto i ponti o sotto gli
alberi. Se a questi aggiungiamo quelli che vivono in baracche o in tende,
arriviamo a un miliardo di persone. L’Organizzazione
Mondiale della Sanità afferma che nel Sud del mondo vi sono
quattrocentocinquanta milioni di handicappati. E’ incredibile vedere come
stanno proliferando le malattie nei paesi poveri: più cresce la povertà, più
aumentano le malattie. La FAO sostiene
che circa quattrocento milioni di persone sono minacciate dalla fame, di cui
trenta-quaranta milioni all’anno ne muoiono in conseguenza. La FAO afferma che
ogni minuto trenta-quaranta bambini sotto i cinque-sei anni muoiono di fame,
mentre abbiamo il coraggio di spendere a questo mondo mille miliardi di dollari
all’anno in armi, che equivalgono a due miliardi
e ottocento milioni al minuto. Se questo che investiamo in morte lo
investissimo in vita, potremmo vivere tutti da piccoli principi su questa
terra”. L’altra
riva L’Egitto dal quale gli Ebrei sono usciti è la
terra del culto dei morti. Ed è anche la terra della schiavitù. L’ebraismo
rifiuta l’uno e l’altro. L’ebraismo propone di scegliere tra un sistema
ideologico basato sullo sfruttamento dell’uomo che spera in un miglioramento
in una dimensione metafisica oppure un impegno etico ad agire per la correzione
della società in nome di un’Entità che si definisce garante dei diritti
dell’oppresso che soffre (Salmo 146,7 e
seguenti). Ma nella storia ebraica si intrecciano diverse
tradizioni. Dalla Bibbia si ricava che la struttura dell’uomo è duplice: la
parte materiale, polvere della terra in cui viene insufflato lo spirito vitale
nismàth chajjm che lo rende persona vivente. Il respiro vitale, nèfesh
con la morte abbandona il corpo e ritorna a Dio. Dopo la morte lo Sheòl è la sede del defunto dove si dice conduca una esistenza
buia e senza coscienza (Giobbe
14,21).Aperto invece è il problema dell’anima: se si identifichi con la
sostanza che è diretta allo Sheòl, o
se scompaia nel nulla, o torni a Dio, o continui a sopravvivere per sempre. La
critica ebraica recente insiste comunque a sottolineare nella Bibbia una visione
unitaria dell’uomo, nel quale gli elementi sono indissociabili. Anche nella
morte l’unità della nèfesh non
sarebbe compromessa e la morte non
sarebbe totale assenza di vita, ma la sua massima attenuazione: per questo i i
morti sono chiamati Refaìm, i deboli. La dimora della morte lo Sheòl, secondo alcuni, come in Samuele 2,6 è sottoposta al
potere divino, è detto che il Signore “fa morire e fa vivere, fa scendere
nello Sheòl e ne fa salire”. Infine la resurrezione della persona nella sua
interezza non ha niente a che vedere con il concetto greco di immortalità e
compare in vari brani (Giobbe 19,25-27; Proverbi 15,24 ecc). Ma si può prestare a una duplice lettura come in
Ezechiele 37, dove l’interpretazione può essere orientata nel senso di una
visione di risurrezione dei morti, in una prospettiva di “fine dei giorni”,
oppure nel senso di una grandiosa allegoria della rinascita storica e nazionale
di Israele che torna sulla sua terra e riprende la vita di un tempo. Letture: Max Weber “sociologia delle religioni,
l’antico giudaismo”, Newton Compton, Roma 1980. “Morte e resurrezione in prospettiva del regno” A.A.V.V., elle di ci editrice
L’altra
riva La vita odierna permette sempre meno a molti uomini
un tempo per vivere e così parallelamente la morte non lascia a molti un tempo
per morire. La morte continua a regnare incontrastata, ma il morire è sovente
alienato, rimosso ed espropriato dall’uomo. Molte infatti sono le morti che
giungono improvvise a causa della guerra, della violenza, degli incidenti sul
lavoro e sulla strada: sovente si subisce la morte senza avere il tempo di
morire. Almeno negli altri casi l’uomo non può essere
privato del suo morire, perché questo deve essere un atto volontario, l’atto
supremo della vita. Invece i famigliari non vogliono avvisare il parente
della morte ormai prossima, chiaramente certa, perché questi non resisterebbe
alla verità e si spaventerebbe; i medici più avvertiti pensano che non è
lecito togliere la speranza e arrivano a pensare che l’annuncio di malattia
mortale nuocerebbe alla terapia; gli infermieri demandano questo compito ai
responsabili della cura. In alcuni casi si conviene di affidare al prete o al
pastore questo incarico, ma sovente anch’egli evita di “annunciare la morte” rifugiandosi dietro il paravento
dell’incompetenza e dell’insicurezza. Il malato resta così attorniato da
relazioni monche, a volte false, che tendono a propinargli una falsa speranza e
una falsa consolazione. Il suo caso resta disperato
per gli altri, e a lui è tolta ogni possibilità di verità condivisa, la sola che nella coscienza della morte vicina
possa liberare dall’angoscia e dalla disperazione. Morire umanamente significa infatti condurre
pienamente a termine la propria maturazione umana nelle ultime fasi della vita. Letture: “Vivere la morte”, Enzo Bianchi, Gribaudi
, 1983. L’altra
riva Norbert Elias non condivide la “nostalgia” di
Philippe Aries per i tempi passati, in cui si poteva “gestire la propria
morte”. Nel suo saggio “La solitudine del morente” così conclude la sua
lettura atea e non pessimista dei modi in cui tocca morire in questo secolo: “La morte non è spaventosa. Si entra in un sogno e
il mondo scompare, sempre nel caso che tutto si svolga per il meglio. Terribili
invece possono essere le sofferenze dei moribondi e il lutto dei vivi quando
perdono una persona cara. terribili sono spesso le fantasie collettive e
individuali che gravitano intorno alla morte. Rasserenarle, confrontarle alla
semplice realtà della finitezza della vita è un compito che dobbiamo ancora
affrontare. E’ orribile che dei giovani debbano morire prima di aver potuto
assaporare le gioie della vita e di aver dato un senso alla propria esistenza.
E’ orribile che uomini, donne e bambini debbano vagabondare affamati
attraverso paesi deserti dove la morte non ha fretta di colpire. Molti sono dunque i terrori che circondano la morte.
Dobbiamo ancora scoprire ciò che gli uomini possono fare per garantire ai loro
simili una fine tranquilla e pacifica; l’amicizia di coloro che sopravvivono,
la sensazione che debbono avere i morenti di non essere d’ingombro fanno
senz’altro parte di tale programma. La rimozione sociale, l’atmosfera di
malessere che spesso oggigiorno circonda gli ultimi istanti di vita, non sono
certamente d’aiuto per gli uomini. Forse dovremmo parlare con più franchezza della
morte , smettendo di considerarla un mistero. La morte non cela alcun mistero,
non apre alcuna porta: è la fine di una creatura umana. Ciò che di essa
sopravvive è quanto essa ha dato agli altri uomini e ciò sarà conservato
nella loro memoria.(...)” Letture: Norbert Elias “La solitudine del morente “, Il Mulino,1985, Bologna L’altra
riva Quando penso alla mia morte e alla mia decisione di
essere cremato, non è estraneo il ricordo dei campi di concentramento che
stanno alle nostre spalle e cerchiamo di dimenticare o negare...
Letture: da “Vivere la morte “, di Enzo Bianchi,
Gribaudi Editore, 1983 è tratto un brano del racconto “L’ultimo dei
giusti” di André Schwarz-Bart “Mentre nel silenzio sempre più pesante della
folla, nell’odore sempre più pestilenziale, lievi e soavi parole prendevano
vita sulle sue labbra, scandendo su un motivo di sogno il passo dei bambini e su
un inno di amore quello di Golda, gli sembrava che un silenzio eterno si
abbattesse su quella mandria ebraica condotta al macello, che nessun erede,
nessun ricordo avrebbe mai fatto eco al passo silenzioso di quelle vittime; non
un cane fedele avrebbe tremato, non il cuore di una campana avrebbe suonato,
uniche testimoni sarebbero state le stelle che declinavano nel fresco cielo.
“Oh Dio”, si disse in quell’attimo il Giusto Erni Levy, mentre il sangue
della pietà ricominciava a scendere dalle sue palpebre, “oh Signore, così
siamo sortiti migliaia di anni fa. camminavamo per aridi deserti, attraverso il
Mar Rosso di sangue, in un diluvio di lacrime salate e mare. Siamo vecchissimi.
Camminiamo. Oh fosse giunto il momento di arrivare!” (...) Ad occhi chiusi subì la spinta delle ultime
infornate di carne che le SS sospingevano ora coi calci dei fucili nelle camere
a gas e, ad occhi chiusi, sentì spegnersi la luce sui vivi, sulle centinaia di
donne ebree d’un tratto urlanti di sgomento, sui vecchi che subito alzarono
sacre preghiere con forza crescente, sui bimbi martiri della spedizione che
trovarono nello spavento l’innocente freschezza delle passate angosce e
prorompevano tutti in identiche esclamazioni. “Mamma!” “Eppure sono stato
buono!” “E’buio!E’buio!”... E mentre i primi effluvi del gas
“Ciclone B” s’infiltravano fra i grandi corpi sudati, per deporsi al piano
inferiore, sull’agitato tappeto di teste infantili, Erni, liberandosi dalla
mutua stretta della fanciulla, si chinò nel buio verso i piccoli che gli si
rannicchiavano tra le gambe e urlò con tutta la bontà e la forza dell’anima
sua “Respirate profondamente agnelli miei, respirate in fretta!” http://itismajo.it/coalova/eBook/t005.htm http://itismajo.it/coalova/eBook/Default.htm
L’altra
riva L’idea che la sorte dell’uomo dopo la morte è
determinata dalla condotta in questa vita è sorta in un periodo relativamente
recente della storia della civiltà. Non ne troviamo traccia nelle religioni
assira e babilonese, nella religione cinese e nella stessa religione ebraica
fino al II secolo avanti Cristo. Ogni teoria morale si è sempre costituita in
funzione degli interessi degli strati che hanno il controllo della vita sociale.
Perché potesse sorgere la speranza di un certo affrancamento dell’uomo, in
questa vita e nell’altra, occorreva che la dura legge della schiavitù avesse
già cominciato a trovare ostacoli e contraddizioni, grazie allo sviluppo di
nuove forze produttive. Il lento
inizio di un processo di disgregazione sociale in Egitto,
si trasferisce in campo religioso e morale, alimentando le speranze del
servo e del povero in una giustizia superiore, che se non in questa vita gli
assicuri almeno un’esistenza migliore in un’altra. Nelle tombe più antiche che risalgono a oltre 4000
anni prima della nostra era, prevale il concetto della sopravvivenza materiale
del defunto. I defunti, anche i più eminenti, vengono deposti in una tomba
quadrangolare od ovale, con cibi e utensili e figurine di parenti. Col tempo le
tombe diventano più complesse con pesanti coperture il cui scopo è impedire
l’uscita del defunto, di nuovo in mezzo ai vivi, violando una delle leggi
fondamentali della società : il tabù. Affinché il defunto trovasse sempre il
proprio corpo nelle migliori condizioni ne venivano estratti i visceri e veniva
mummificato. Naturalmente questo processo era destinato ai ricchi. Le piramidi non sono altro che una variante grandiosa
di questo tipo di tombe, destinate a personaggi reali e a partire dal 3000
avanti Cristo. Le iscrizioni in queste tombe parlano del destino dei
re, divenire nell’aldilà nuove divinità celesti. Nel “Libro dei morti” si parla del diverso
destino dei defunti. Per la gente comune la dimora dei morti viene talvolta
definita “il campo dei giunchi”, dove avrebbero continuato a coltivare i
campi meravigliosamente fertili. Per i ricchi, non destinati come i reali a diventare
nuovi dei, l’espediente per non dover faticare nemmeno nell’aldilà
consisteva nel deporre nelle tombe figurine in creta di schiavi e contadini che avrebbero lavorato per loro anche
nell’altro mondo. Strettamente associato con
i riti funerari era il dio Osiride. Riassunto dal libro “Breve storia delle
religioni”, Ambrogio Donini, Newton Compton, 1991 L’altra
riva In passato la morte era una questione pubblica in
misura assai maggiore di quanto lo sia oggi. Anche la nascita e la morte -
analogamente ad altri aspetti animali della vita umana - erano eventi pubblici e
dunque comunitari, aspetti questi, sostituiti oggi da una rigorosa
privatizzazione. Nulla caratterizza con maggiore efficacia
l’atteggiamento odierno di fronte alla morte della riluttanza degli adulti
nell’avvicinare i bambini alla realtà della morte; tale riluttanza è
particolarmente sintomatica per le proporzioni e le forme assunte dalla
rimozione della morte nell’ambito tanto individuale che sociale. Obbedendo
all’oscura sensazione che i bambini possano esserne danneggiati, nascondiamo
loro gli eventi naturali della vita, che dovranno in seguito inevitabilmente
conoscere e capire. Ma per i bambini il pericolo non è rappresentato dalla
conoscenza della semplice realtà della finitezza della vita, di quella dei
genitori e quindi anche della propria; del resto le fantasie infantili toccano
questo problema e la paura e l’angoscia, frutto della loro vivida
immaginazione, spesso lo ingigantiscono. Sapere d’avere dinanzi a sè una
lunga vita può equilibrare positivamente le fantasie inquietanti. Letture: “La solitudine del morente”, Norbert Elias, Il Mulino, 1985. L’altra
riva Il ritrarsi di fronte ai moribondi, e il silenzio che
gradualmente si instaura, proseguono anche quando la morte è sopraggiunta:
nella preparazione della salma e della sepoltura, ad esempio. Queste pratiche
oggigiorno non sono quasi più espletate da parenti e amici, ma sono ormai
passate nelle mani di specialisti. Nella coscienza dei primi il ricordo del
congiunto morto resta così fresco e vivo; il significato della salma e della
tomba come centro dei sentimenti è assai meno rilevante. Questo definitivo
passaggio della cura della tomba dalle mani della famiglia a quelle degli
specialisti è testimoniato dagli opuscoli editi dai maggiori cimiteri.
Naturalmente essi mettono in guardia da concorrenti ed avversari che potrebbero
oltraggiare la decorazione delle tombe con un troppo ricco ornamento floreale.
Si sottace quasi completamente il significato delle tombe quali luoghi di
sepoltura di morti, e naturalmente mancano anche espliciti riferimenti al fatto
che il mestiere dei cimiteri ha a che fare con la sepoltura di cadaveri. Questo
studiato occultamento, che riflette la mentalità dei potenziali clienti, emerge
poi con particolare chiarezza se pensiamo alla poesia del diciassettesimo
secolo. La franchezza con cui parla della trasformazione del corpo umano nella
tomba è in stridente contrasto con la rimozione igienica di sgradevoli
associazioni dalla letteratura, e soprattutto dalle conversazioni sociali, dei
nostri giorni. Allora persino i poeti parlavano liberamente dei
vermi della tomba, qui, invece, gli stessi giardinieri cimiteriali evitano
l’accenno a qualsiasi cosa possa ricordare che le tombe hanno a che fare con
la morte. Letture: “La solitudine del morente”, Norbert Elias,Il Mulino, 1985 L’altra riva Cimitero o Camposanto?
Lettura da: “La solitudine del morente”, Norbert
Elias, Il Mulino, 1985 Varrebbe
la pena di discutere della tattica adottata dai vari concorrenti commerciali in
questo settore, ma non è questa la sede più appropriata. Parliamo
di cimiteri. Sarebbe
bello che il luogo commemorativo per i defunti fosse realmente un parco per i
vivi. Questa è l’immagine che i giardinieri cimiteriali vorrebbero evocare:
“un’isola tranquilla, verde, in fiore, nel febbrile frastuono della nostra
vita quotidiana”: Se quelli che vengono progettati fossero realmente parchi
per i vivi, dove la gente mangia tranquillamente i suoi panini e i bambini
giocano! Forse un tempo ciò era possibile, ma oggi è proibito dalla nostra
attitudine alla solennità, dalla tendenza a considerare disdicevole lo scherzo
e il riso in prossimità della morte; questi sono sintomi del tentativo semi
inconsapevole dei vivi di distanziarsi dai morti e di celare quanto più
possibile quest’aspetto così increscioso della animalità umana dietro le
quinte della vita comune. Ai bambini che si rincorrono allegramente fra le
tombe, i guardiani delle aiuole ben curate e ornate di fiori darebbero una
sonora lavata di capo per il poco rispetto dimostrato per i morti. Ma una volta
morti, gli uomini certamente non sanno se i vivi li trattano con rispetto. Anche
la solennità con cui si circonda la cerimonia funebre la tomba, l’idea che in
prossimità del sepolcro debba esservi silenzio e che in cimitero si debba
parlare a bassa voce per non disturbare la quiete dei defunti, sono in
definitiva tutte forme di distanziamento dei vivi dai morti, mezzi per
allontanare dai vivi la minaccia insita nella vicinanza dei morti. Sono i vivi
ad esigere rispetto per i morti e hanno le loro buone ragioni, fra cui quella
dettata dal loro timore della morte e dei morti; spesso però tale timore serve
come mezzo per accrescere il potere dei vivi. L’altra
riva La crisi religiosa del mondo arabo trovò la sua
personalità di maggior rilievo in Muhammad, o Maometto. La sua nascita nel 570
o 571 dopo Cristo, coincide con la definitiva cacciata degli invasori etiopici
dallo Yemen e con il disperato tentativo delle tribù beduine della Mecca di
riprendere in mano una parte almeno del commercio con l’oriente e ristabilire
la vecchia via carovaniera del Mar Rosso, favorita dal pellegrinaggio annuale al
santuario dove era esposto nella Kaaba una grossa pietra nera, probabilmente di
origine meteorolitica, identificata con il dio locale Hubal; pellegrinaggio che
Maometto trasformerà, ma conserverà sostanzialmente. “Il giorno del giudizio è imminente, rinnegate i
vani idoli e ritornate alla religione dei padri, mettendovi al servizio del vero
Dio, prima che il mondo finisca”: tale è il messaggio che il Corano, nella
sua parte più antica, attribuisce a Maometto, profeta di Allah. Il nome Qaràn o Quràn indica semplicemente la “lettura”
a piena voce, la recitazione: ed è derivato dalla credenza che l’arcangelo
Gabriele, apparso a Maometto in una grotta all’orizzonte del deserto, gli
avrebbe trasmesso ad alta voce, da un originale scritto in cielo, le
“rivelazioni” che egli avrebbe poi dovuto recitare ai suoi seguaci. Il concetto fondamentale del Corano è quello
dell’abbandono alla volontà divina, della “sottomissione”, o islam da cui deriva il termine muslim, musulmano, per definire i seguaci della nuova religione. Si
ritiene che l’anima sopravviva in forma corporea anche dopo la morte e che
nella vita futura il credente potrà godere di ogni sorta di piaceri; ma chi si
ostina nell’empietà e nel peccato sarà divorato dalle fiamme infernali. Se
gli infedeli oppongono resistenza alla propagazione della nuova fede, devono
essere sterminati (la “guerra santa”, o gihàd); ma se si sottomettono e
accettano di riscattarsi con un tributo, potranno vivere in pace e praticare i
loro culti. Appunti da “Breve storia delle religioni”,
Ambrogio Donini, Newton Compton, 1991 L’altra
riva Di fronte alla morte, molte voci si tacciono e la
comunicazione si fa semplice e rituale, talvolta è un grido, talvolta nasconde
l’invettiva contro il destino. Sovente è opera dell’agenzia di pompe
funebri, talvolta è opera delle famiglie o rivela la mano del sacerdote. E’ consueto, come si può vedere su questo giornale
(quasi sempre compare la foto) o sugli avvisi murali, informare i cittadini
sugli estremi personali del defunto, sui rapporti di parentela. Più di rado
compaiono professione e cariche del morto, solo in alcuni casi si cita la
confessione religiosa; in caso di morte prematura talvolta si citano le cause
della morte. Riportiamo alcune frasi più comuni. Sovente ricorre l’immagine del sonno: “si è assopito”, “riposa per sempre”, ha
chiuso gli occhi per sempre”. Altre volte si scrive
“è mancato”, “è mancato all’affetto dei suoi cari”, “porgiamo
l’estremo saluto”, “è ritornato nella pace dei giusti”. Oppure: “E’ tornata alla sua casa”, “è ritornato
nella pace dei giusti”, “ha raggiunto in cielo il Signore”. Altri
scrivono: “E’ stato portato via (per sempre)”, “un
doloroso destino ha tolto all’affetto dei suoi cari”, “Dio ha preso con sè” E
anche : “E’ stato chiamato nell’eternità”, “Dio ha
richiamato”. Si scrive anche: “E’ stato liberato dalla sofferenza”, “Il
Signore Iddio ha liberato da una lunga malattia”, “dopo lunghe sofferenze è
stato liberato dalla sua esistenza terrena”. E
se la morte è prematura: “Improvvisamente”, “Improvvisa immatura
scomparsa”, “costernati e increduli di così tragica fine”. Quando la morte era attesa come un beneficio: “si è spento serenamente”, “dopo un’intera
vita dedicata alla famiglia e al lavoro”, “ha chiuso la vita operosa”. Sovente a queste frasi dei parenti corrispondono
altrettanto semplici e rituali condoglianze scritte di chi partecipa al funerale
e al dolore della famiglia. Letture . “Le immagini della morte nella
società moderna”, Werner Fuchs, Einaudi, 1973 L’altra
riva Il Morto stesso non è più il soggetto centrale
delle onoranze, ma è un oggetto commercializzato e consumizzato. Non è più il
centro dell’attenzione, ma occasione di lucro. Non ci riferisce tanto ai riti
funerari, alla pur discutibile ricerca di “un posto al sole” nei cimiteri, o
agli spazi dedicati sui giornali in occasione della morte e delle ricorrenze, ma
a pratiche da noi meno presenti. Si tratta di quel fenomeno degli Stati Uniti per cui
esiste una vera e propria estetica funeraria, con alberghi che ospitano cadaveri
e li trattano e li rinforzano con supporti e sostanze diverse, così che si
reggono in piedi secondo la movenza caratteristica della vita usuale. Più che
imbalsamare il cadavere come si usava un tempo, si tende a trattarlo in maniera
che il morto sembri vivo. Per esorcizzare la paura della morte si simula la
vivacità del vivente. Questa paura della morte si manifesta anche con l’ostracismo
del lutto. Per non turbare la compiaciuta società si allontanano i bambini
che invece ieri erano in prima fila nei riti funerari. La morte è diventata un tabù. Non è conveniente
alla società fondata sull’efficienza e sul vitalismo. Gorer afferma
l’avvenuta sostituzione del tabù del sesso col tabù della morte. Le
manifestazioni di lutto sono proibite. L’esigenza di esprimere il dolore resta
inibita. E’ consentito piangere solo “di nascosto, come di nascosto ci si
spoglia” osserva Gorer.In pubblico il colpito dal dolore deve mostrasi
disinvolto, dedito al suo lavoro e ai suoi svaghi, altrimenti è classificato
come asociale. Questa rimozione è indotta dalla repressione
sociale. Una società devastata dal prepotere, dal privilegio, dal profitto per
il profitto, alla ricerca del comodo, del facile, del felice a tutti i costi.
Deve reprimere l’evento della morte. Letture: “Morte e resurrezione in prospettiva del regno” A.A.V.V., Elle di ci editrice L’altra
riva Già il modo con cui usiamo l’espressione “i
morti” è singolare e indicativo; fa pensare che gli uomini deceduti in
qualche modo esistano ancora, non solo nella memoria dei vivi ma anche
indipendentemente da questi ultimi. La paura della morte è sicuramente anche il
timore di perdere e di veder distruggere ciò che anche i morenti han giudicato
prezioso e a cui han consacrato la propria vita. Ma solo i posteri stabiliranno
se ciò che è sembrato loro prezioso continuerà ad esserlo anche per altri
uomini. Anche le pietre tombali si rivolgono ingenuamente ai posteri: forse
qualche passante leggerà su quella pietra, posta per durare in eterno, che lì
si trova la tomba di quei tali genitori, nonni e bambini. Ciò che viene inciso sulla pietra durevole della
tomba è un silenzioso messaggio dei morti ai vivi; è simbolo di un sentimento
forse ancora inarticolato dell’unica possibilità di sopravvivenza di un morto
nella memoria dei vivi. Tale intenzione
nei fatti si scontra con le leggi del denaro, dello spazio, con le regole
mutevoli in fatto di sepoltura. Accade allora
che i più ricchi ostentino nei cimiteri vere e proprie case dell’aldilà, che
svettano sopra le tombe comuni destinate a durare poche decine d’anni e
guardano altezzose i loculi dei colombari. Questo accade in quel che è definito
camposanto, e dove per tacito accordo si è stabilito che la gerarchia
dell’altra vita riproduca le divisioni e gli onori di questa. Proprio come
accadeva nel lontano Egitto a faraoni e schiavi: gli uni destinati a diventare
‘dei’, gli altri statuine nelle tombe dei ricchi per continuare al lavorare
al loro servizio. I millenni son passati e il materialismo che si legge nei
camposanti continua a far riflettere. Ma non cambierà
presto, come non capiterà di leggere necrologi che dicano pane al pane e vino
al vino, come li troviamo nell”Antologia di Spoon River”. Letture: “La solitudine del morente”,
Norbert Elias, Il Mulino, 1985. “Antologia di Spoon River”, Edgar Lee
Masters, Newton Compton,1974.
L’altra
riva “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; ma
tu va’ ad annunciare il regno di Dio”
(Luca 9,60) Non è una novità, né una scoperta dell’ultima
ora: Gesù amava giocare con le parole. (...) Se intesa letteralmente, la parola
di Gesù sui morti risulta essere un paradosso: come è possibile che un morto
faccia qualcosa? (...) La parola di Gesù diventa chiara quando viene inserita
nel suo contesto (l’invito a seguire Gesù, un contesto di vocazione) e quando
ci rendiamo conto che tutto si gioca sulla parola “morti”: nel primo caso si
usa il significato metaforico, nel secondo quello letterale. Si coglie
facilmente il senso della parola di Gesù quando si fa l’equazione : chi segue
Gesù e annuncia il regno di Dio è vivo, chi non segue Gesù e non annuncia il
regno è morto (in senso metaforico naturalmente, anzi, in senso
teologico-spirituale). Quindi il non accogliere l’urgenza della sequela e
dell’annuncio del regno di Dio, l’esigenza di predicare l’Evangelo, rende
“morte” tutte le altre cose sul piano della storia, come appunto quella di
seppellire un morto reale. (...9 Se è vero che noi protestanti non abbiamo il
“culto dei morti” e i nostri vecchi cimiteri si distinguono per austerità e
semplicità, è pur vero che in occasione del 2 novembre qualcuno di noi si reca
al cimitero, quantomeno per verificare lo stato della tomba di un suo caro.
Diciamo che i nostri morti sono con il Signore e non hanno certo bisogno della
nostra attenzione o della nostra cura. In occasione di questa ricorrenza è bene
non sparare contro altri versetti biblici che parlano appunto di morti che
seppelliscono altri morti, se prima non ne abbiamo colto per intero la pregnanza
teologica e l’esigenza che pongono su di noi. Pensiamo ai vivi; dei morti, di
tutti i morti, si prende cura il Signore. (Articolo a firma di Domenico Tomasetto, su Riforma, settimanale delle Chiese evangeliche, battiste, metodiste, valdesi, 1 novembre 1996)
L’altra riva Il
buddismo è oggi una delle religioni più diffuse nel mondo, insieme al
cristianesimo e all’islamismo. Al pari del cristianesimo e dell’islamismo,
il buddismo è nato e si è sviluppato come dottrina universale del riscatto dal
dolore e della salvezza, nel lungo periodo che ha visto sorgere, affermarsi e
decadere il sistema sociale basato sulla schiavitù, tra il VI secolo a.C. e il
VII secolo d. C. Diffuso inizialmente in un piccolo stato nel Nord dell’India
il buddismo ha avuto i più larghi consensi in terra di “missione”. Anche il
buddismo è sorto come grande “eresia” staccandosi dalla originaria
tradizione brahamanica, come fece anche il giainismo. Il
nome Buddha, significa semplicemente “lo svegliato”, lo stesso titolo è
dato a centinaia di personaggi più o meno immaginari che attraverso un analogo
tirocinio di “illuminazione interiore” avrebbero raggiunto uno stato
perfetto di felicità, consistente nella soppressione di ogni forma di desiderio
e nell’annientamento della personalità umana. Tutto quello che si può dire
del Buddha storico, una volta sfrondata la sua figura della leggenda, si
esaurisce in poche righe. Il
nucleo centrale dell’insegnamento del Buddha abbraccia le quattro verità sul dolore, l’origine del dolore, la soppressione
del dolore e la strada che occorre seguire per arrivare alla soppressione del
dolore. Non è difficile individuare in queste formulazioni l’eco
dell’impotenza e della disperazione degli strati più umili della società,
incapaci di raggiungere con le loro forze quello stato di felicità cui
aspiravano. Il
buddismo che predica che tutte le cose, per quanto piacevoli e desiderabili sono
soggette alla separazione e alla distruzione, alla dissoluzione e alla
disintegrazione chiede comunque al discepolo convinto di essere compassionevole
per il prossimo: “possa
io essere il dottore e il farmaco e
possa essere l’infermiere di
tutti gli esseri infermi del mondo finché
ognuno di loro sia guarito
Possa una pioggia di cibo e bevanda discendere /per dissipare il dolore
della sete e della fame / e durante l’ora della carestia/ possa io stesso
mutarmi in bevanda e cibo.
Io divengo un inestimabile tesoro per
coloro che sono poveri e indigenti; possa
io mutarmi in tutte le cose di cui essi hanno bisogno/ e possano essere poste
proprio accanto a loro.” -
dai canti di Santideva Letture “Breve storia delle religioni”,
Ambrogio Donini, Newton Compton, 1991; Il buddismo Mahayana, Paul Williams,
Ubaldini editore,1990
L’altra
riva In Australia si sta discutendo a fondo. E’ il primo
paese al mondo che ha autorizzato il suicidio assistito per i malati terminali e
ora nel Territorio del nord si vuole rimettere tutto in discussione. Intanto il
75% dell’opinione pubblica è a favore dell’eutanasia. La “Legge sui
malati terminali” è entrata in vigore in Australia a luglio 95 ed è stata
applicata per la prima volta il 22 settembre quando Bob Dent, malato terminale
di cancro, ha deciso di togliersi la vita con un’iniezione letale. In Italia Giovanni Berlinguer - docente di Igiene del
lavoro alla Sapienza a Roma - dice “Ritengo che una normativa concernente una
questione delicata come l’eutanasia dovrebbe avere un valore nazionale”.
Egli ritiene necessario superare l’accanimento terapeutico e che per questo
scopo sono necessarie regole di comportamento per i medici, più che vere e
proprie norme. Alla domanda se darsi la morte rientra tra i diritti
di un individuo risponde. “ Tra i diritti individuali c’è quello ad essere
curato, ma anche quello a non essere curato. Se una persona vuole lasciarsi
morire, deve essere libera di farlo, ma non di chiedere ad altri di interrompere
la sua vita. Deve essere in altre parole un diritto garantito, ma senza che
altri ne assuma la responsabilità diretta o inderetta. Questa è la ragione per
la quale sono favorevolissimo ad interrompere le cure quando non servono a
nulla, ma sono ostile per principio a demandare ai medici la responsabilità di
interrompere la vita. Le norme sull’eutanasia prevedono che un paziente
richieda a un medico di causare la morte, non di interrompere le cure. I rischi
sono in primo luogo nelle procedure. In Olanda è stata di recente approvata una legge in
questo senso, è risultato che spesso sostanze letali vengono somministrate
senza il consenso del soggetto. Questo equivale a un omicidio, anche se
legalizzato. In secondo luogo, poichè i malati - sopratutto quelli anziani o
quelli cronici_ sono ingombranti, pesano, danno fastidio, c’è il rischio che
qualcuno si senta autorizzato a escludere dalle cure chi non può sostenerle con
risorse proprie. C’è il rischio quindi che l’eutanasia diventi un elemento
di discriminazione sociale.” (Dall’articolo “Libertà individuali e diritto all’eutanasia” di Luca Tomassini, Liberazione, 29/10/1996)
L’altra
riva Diritto
a vivere, obbligo a morire “Al convegno internazionale sulla sanità svoltosi
a Rimini un noto politologo americano, Edward Luttwak, ha avuto l’arroganza di
esporre una teoria simil-nazista sul modo di risolvere il problema degli anziani
che ha destato nella platea stupore ma anche consenso. Secondo Luttwak lo stato sociale va abolito in Italia
perchè fa vivere troppo gli italiani e crea di conseguenza la crescita della
spesa pensionistica. Purtoppo il signor Luttwak ha potuto terminare il suo
discorso senza essere cacciato via prima di finirlo. In Italia non siamo certamente arrivati ad
abbracciare una simile teoria, ma il problema degli anziani è esplosivo, e non
trova alcuna forma i progettazione da parte delle autorità competenti. Mancano in Italia strutture in grado di affrontare il
problema anziani. Le Case di Riposo si sono trasformate in luoghi di
ricovero per pazienti non autosufficienti, ma il personale è gravemente carente
e soprattutto non adeguato a ad erogare le prestazioni sanitarie edeguati per
questi malati affetti da gravi patologie croniche. Mancano strutture per lungo degenti, centri diurni
per assistenza agli anziani, , l’assistenza domiciliare è gravemente carente
per mancanza di personale infermieristico. Non vi è un controllo di qualità
sulle prestazioni erogate in regime di assistenza domicialiare
programmata e integrata. Si pensa ad istituire reparti ospedalieri di elevata
tecnologiae si abbandonanano al loro destino migliaia di anziani non
autosufficienti che hanno l’unica colpa di essere “vecchi” e non più
produttivi per la nostra società. Nella mancanza di progettazione può trovare consenso
anche la teoria di Luttwak. Se l’Italia è lontana da tale follia nell’animo
della gente, può esservi vicina nell’inerzia di alcuni politici che non fanno
assolutamente nulla per risolvere il maggior problema sanitario del futuro. Lettera a “Liberazione” di Guido
Gasperotti, Trento, 22/10/1196
L’altra riva “Laelius de amicitia”, Cicerone, Tascabili
economici Newton, 1993 “Non sono d’accordo con quelli che da poco
hanno preso a dissertare su questi argomenti, sostenendo che l’anima
muoia insieme al corpo e che tutto venga distrutto dalla morte. Per me ha più
valore l’autorità degli antichi e dei nostri antenati che attribuirono ai
morti diritti tanto sacri, cosa che di certo non avrebbero fatto se avessero
pensato che per loro non aveva nessuna importanza; oppure l’autorità di
quelli che abitarono in questa terra e l’istruirono, con le loro istituzioni e
i loro precetti, la Magna Gercia che ora è distrutta, ma allora era fiorente;
oppure di quell’uomo che fu giudicato il più sapiente dall’oracolo di
Apollo, che non sosteneva ora questa ora quella opinione, ma sempre la stessa, e
cioè che l’anima degli uomini è divina e, quando abbia lasciato il corpo, si
apre per lei il ritorno al cielo, tanto più facile quanto più si è buoni e
giusti. (...) Se invece sono più vere quelle supposizioni, e
cioè la morte dell’anima e del corpo sono la stessa cosa e non rimane più
alcuna percezione, nella morte non c’è nulla di bene e nulla di male.
Infatti, perduta ogni sensazione, è come se non fosse affatto nato colui che
invece è nato e noi ne siamo felici; e questa città finchè vivrà, se ne
rallegrerà.” Pensieri, Giacomo Leopardi, Garzanti, 1985 -
pensiero sesto La morte non è male: perchè libera l’uomo da tutti i mali, e insieme coi beni gli toglie i desideri . La vecchiezza è male sommo: perchè priva l’uomo di tutti i piaceri, lasciandogliene gli appetiti; e porta seco tutti i dolori. Nondimeno gli uomini temono la morte, e desiderano la vecchiezza.
L’altra riva I morti non possono essere sostituiti. Questa realtà
della vita di ogni essere umano rende terribile e temuto quello che per ogni
vita biologica è un evento naturale. Nelle diverse religioni del passato intorno alla
morte si sono creati i riti e le
credenze più varie. Quella cristiana raccoglie
l’eredità ebraica e ci parla della morte come evento nato dal peccato di
Adamo ed Eva. Nello stesso tempo però apre al credente la prospettiva della
resurrezione dei giusti, fondata sulla morte e resurrezione di Cristo. Questa
parola impegna il credente a
un atteggiamento positivo rispetto alla morte individuale, su cui ha
qualcosa da dire secondo la fede. Lettura/ da “morte e risurrezione in
prospettiva del regno” A.A.V.V. elle di ci editore - 1981 (...) Abbiamo
già osservato che i racconti pasquali dei vangeli hanno quasi sempre come punta
il conferimento di una missione di testimonianza (l’incontro con i due di
Emmaus è l’eccezione che conferma la regola, ma anche in questo caso la
testimonianza c’è, con grande gioia e urgenza) e, che nella confessione di
fede protocristiana di 1 Corinti 15 e nelle menzioni della resurrezione di Gesù
fatta da Paolo c’è un riferimento diretto all’attività apostolica sua e di
altri testimoni. Questo vuol dire che fin dall’inizio la risurrezione di Gesù
ha significato per i suoi discepoli l’impegno di proclamare che Gesù vive,
che Gesù ha sconfitto la morte, che colui che era stato crocifisso è il
Signore, il Kyrios, il Pantokrator (Matteo 20,18: “Ogni potere mi è stato
dato, in cielo e sulla terra”). In altre parole, i discepoli non sono
semplicemente tornati a continuare l’insegnamento del Gesù terreno, come se
la croce e la resurrezione non avessero avuto luogo, ma hanno predicato la croce
e la risurrezione come l’evento fondamentale della storia cosmica, e alla luce
di quest’evento hanno interpretato e qualificato anche le cose che Gesù aveva
detto prima di essere crocifisso: la croce e la resurrezione danno alla sua
persona e al suo insegnamento una realtà ed un’efficacia escatologica. La nostra
situazione di fronte all’annunzio evangelico della resurrezione di Gesù è
analoga a quella dei discepoli, siamo anche noi chiamati a credere, a vivere, a
prendere iniziative in modo tale che la nostra fede, le nostre parole, e le
nostre opere siano la conseguenza del fatto che Gesù è risorto, che Gesù
vive, che Gesù è il Signore, che Gesù è la primizia e il segno del mondo
nuovo di Dio.”
(pag. 110)
L’altra riva Disse allora una donna, Parlaci della Gioia e del
Dolore. E lui rispose: La vostra gioia non è che il vostro dolore senza
maschera. E il medesimo pozzo da cui sgorga il vostro riso più volte si è
riempito delle vostre lacrime. Come può essere se non così? Più profondamente
scava il dolore nel vostro essere, e più è la gioia che potete contenere. Non
è la coppa che contiene il vostro vino quella stessa che il vasaio ha arso nel
suo forno? E non è il liuto che vi distende lo spirito quello stesso legno che
le lame hanno incavato? Quando siete lieti guardate a fondo nel vostro cuore e
troverete che la gioia proviene da ciò che vi ha dato dolore. Quando siete nel
dolore guardatevi ancora nel cuore e vedrete che in verità piangete per ciò
che è stato il vostro diletto. Alcuni tra voi dicono : “La gioia è più
grande del dolore” e dicono altri: “No, più grande è il dolore”. Ma io
vi dico che sono inseparabili. Insieme giungono,
e quando l’una siede con voi alla vostra mensa, ricordate che l’altro
dorme nel vostro letto. In verità siete sospesi come bilance tra la gioia in
voi e il dolore. Solo se siete vuoti restate immobili e in equilibrio. Allorché
il vostro tesoriere vi solleva per pesare l’oro suo e l’argento, non possono
la vostra gioia e il dolore non alzarsi o ricadere. Parlò Almitra, e disse: Vorremmo chiederti ora della
Morte. E lui rispose: Vorreste conoscere il segreto della morte. Ma come
potrete scoprirlo se non cercando nel cuore della vita? Il gufo i cui occhi
notturni sono ciechi nel giorno non può svelare il mistero della luce. Se
veramente volete mirare lo spirito della morte, spalancatevi il cuore al corpo
della vita. Poiché vita e morte sono un tutt’uno, come lo sono il fiume e il
mare. Nella profondità delle vostre speranze e dei desideri sta la silenziosa
conoscenza che avete dell’aldilà. E come semi addormentati sotto la neve i
vostri cuori sognano la primavera. Fidatevi dei sogni, poiché in essi si
nascondono i portali dell’eternità. La paura che avete della morte non è che
il tremito del villano quando innanzi al re sta per ricevere onore dalla sua
mano. Pur tremando non è forse lieto perché porterà il segno regale? E
tuttavia non bada ancor più al suo tremore? Cos’è infatti morire se non
restarsene nudi nel vento e sciogliersi nel sole? Cos’è smettere il respiro
se non liberarlo dai suoi irrequieti flussi così che possa alzarsi e spandersi
e cercare Dio senza peso alcuno?
Soltanto quando berrete al fiume del silenzio canterete veramente. E quando
avrete raggiunto la vetta della montagna comincerete a salire. E quando la terra
reclamerà le vostre membra, allora invero danzerete. Letture: “Il profeta”, Kahlil Gibran, Acquarelli, 1993
L’altra riva Invece
di cercare Dio nelle nuvole, nelle altezze dovremmo cercarlo nella pagina della
cronaca umana dove si rinnova di continuo questa impotenza della giustizia,
impotenza dell’amore.In questa
storia mi sembra emblematico il
sigillo posto nel sepolcro col permesso di Pilato. Per cui la presenza
dell’amore, dell’innocenzadella dedizione al prossimo fu cancella ta e formalmente sigillata la sua assenza. E
questo sigillo non si è mai spezzato, a rigore. Siamo
noi che nella fede proclamiamo la vittoria della pace e dell’amore. Ma
guardate il mondo. In realtà la pietra ricopre la presenza del Dio amore e di
ogni amore che voglia regolare la vita degli uomini: è sempre una presenza
nascosta, velata. Il
mistero di Dio è lì in questa
presenza dell’amore, Dio è Auschwitz, dove non c’è,
la sua presenza è nell’amore sfracellato, conculcato. Credere
vuol dire credere che quell’amore non ha perso. Ecco il punto essenziale di
questo messaggio. Ogni volta che voi avete l’occasione di percepire come di
fronte all’uomo giusto l’ingiusto vince, come di fronte all’attesa di un
povero affamato che stende la mano si distende la logica del potere, del
quattrino, della polizia, voi vedete capita sempre questo. Per
i poveri non c’è giustizia. Questa
è la terribile conclusione che noi vediamo dopo tante proclamazione di
giustizia e libertà che hanno costituito la pagina farisaica della nostra
storia occidentale. Muoiono di fame gli uomini,
e noi siamo insensibili a questo. Oppure siamo sensibili ad occasioni stabilite,
ma non siamo in grado di spezzare questa impotenza della giustizia.
Questa è la Passione del Signore che continua. Non è un racconto
antico, è il nostro racconto. E se noi vogliamo accostarci a questo racconto, a
questo vangelo che continua, con l’animo giusto, dobbiamo metterci in
questione. La rivelazione di Dio da Gesù fatta, passa da questo vuoto, da
questo silenzio. Anche
Dio lo abbandonò : “Dio mio perchè mi hai abbandonato?”. Quindi
è in questa assenza che io trovo le ragioni per superare la frangia malefica
dei dubbi che ci imprigionano e per accettare questa onnipotenza dell’amore di
Dio che è coperta dalla pietra sigillata. E chi ha fede spezza il sigillo.
Occorre spezzare il sigillo. dai
discorsi di Padre Ernesto Balducci
L’altra riva Suicidio
di massa per la cometa Una stella cometa, come quella che indirizzò i tre
vecchi saggi d’Oriente alla capanna della vita, ha condotto trentanove
smarriti ragazzi d’Occidente alla casa della morte. Si sono uccisi insieme
sdraiati a terra, proni, le mani lungo i fianchi come sull’attenti.
Hanno inghiottito manciate di sonniferi per addormentarsi guardando il
cielo dove quella notte sarebbe apparsa nitidissima nel buio californiano, la
cometa di Hale-Bop, e dove loro volevano salire per congiungersi alle astronavi
di esseri superiori che navigano verso le porte del Paradiso, nascoste a 160
milioni di chilometri dietro la coda luminosa, invisibili ai nostri poveri occhi
umani. (...) Molte banalità e sciocchezze sono state e saranno
dette e scritte sui culti satanici, sulle sette, magari sull’Internet e i
computer che uccidono, come se i suicidi collettivi dei 900 fedeli del reverendo
Jones in Guayana nel 1978, o dei 48 cultisti del Sole in Svizzera, avessero
aspettato l’era dell’elettronica per immolarsi sugli altari delle loro
paure.(...) Non sono stati i vecchi o nuovi Satana delle nostre
povere superstizioni medioevali o tecnologiche ad aver ucciso quei 39 ragazzi,
ma il vuoto senza bussola di una gioventù che noi adulti abbiamo creato,
viziato e poi abbandonato in una inutile abbondanza di cose e falsi profeti in
carne ed ossa. Allo spreco di ricchezza, di consumi, di vite. (...)Una gioventù perfettamente disperatamente
californiana, nel culto vuoto della bellezza, della salute, della fitness.
Splendidi rappresentanti di quella razza umana dalla quale i ragazzi sostenevano
di essere ormai maturi per uscire, “laureati”, come dicevano loro,e pronti,
quindi, a raggiungere il livello superiore, gli Ufo. (...) Vittorio Zucconi, “la Repubblica” 28 marzo
1997.
L’altra riva (...)“Nel romanzo ‘Morte di un apicultore’,
dell’autore svedese Gustafsson, il protagonista è condannato a morte da un
cancro e scopre, come un prigioniero che << gli altri incominciano dalle passioni
racchiuse nel mio corpo>>. C’è una precisa ragione che rende simile la
condizione di un condannato a lunga pena a quella di un malato di tumore. Il
carcere ha come sola regola la sregolatezza nei tuoi confronti, la vetta della
legalità è l’illegalità ecc. Socialmente parlando, il sistema penale ti si
presenta perciò come un cancro, un insieme di cellule ‘impazzite’, una ‘escrescenza’. In questo mondo fuori della legge riservato alle
vittime della legge ‘le regole
essenziali del gruppo esterno, -afferma Gonin
- divenute derisorie, sono sostituite da costrizioni male accettate, poichè
troppo concentrazionarie, che danno via libera a tutti i regolamenti di conti.
E’ il coacervo di questi regolamenti di funzionamento e disciplina.
globalmente rifiutati dai reclusi, che forma la ganga impermeabile, al riparo
della quale si sviluppa l’escrescenza carceraria. La vita in prigione presenta
tutti i sintomi che si attribuiscono al tumore canceroso e alle cellule che lo
compongono’. Il ‘tumore’ carcere, come in non pochi casi
quello vero e propio, avendoci fatto scoprire gli altri in noi sotto forma di
passioni, porta alla stessa inquietudine erotica del protagonista del romanzo di
Gustafsson: << l’avvilente, costante memento che la
solitudine è una condizione impossibile, che una cosa come un essere umano solo
non può esistere. Che la parola ‘io’ è il vocabolo più assurdo della
nostra lingua. Il punto vuoto del linguaggio.>> (...) Il malato di cancro morirà o si salverà,
magari sfidando la previsione dei medici. Qui però l’analogia fra malattia
grave e carcere è già cessata. Il recluso non può guarire. Sfiderà la
medicina non guarendo, qualunque cura gli si dia.(...) Lettura da “Dei dolori o delle pene” di
Vincenzo Guagliardo, detenuto politico Edizione che circola in fotocopia. 1997
L’altra riva Sali a
nascere con me fratello Dammi la mano dalla profonda zona
del tuo dolore disseminato. Non
tornerai dal fondo delle rocce. Non
tornerai dal tempo sotterraneo. Non
tornerà la tua voce indurita. Non
torneranno i tuoi occhi forati. Guardami
dal fondo della terra, contadino,
tessitore, pastore silenzioso: domatore
di guanacos tutelari: muratore
dell’impalcatura sfidata: acquaiolo
di lacrime andine: agricoltore
tremante nel seme: vasaio
nella tua creta versato: portate
alla coppa di questa nuova vita i
vostri vecchi dolori sotterrati. Mostratemi
il vostro sangue e il vostro solco, ditemi
qui fui castigato, perché
il gioiello non brillò, o la terra non
consegnò in tempo la pietra o il grano: indicatemi
la pietra dove siete caduti e
il legno su cui vi crocifissero, accendetemi
le vecchie pietre focaie, le
vecchie lampade, le fruste incollate attraverso
i secoli alle piaghe e
le asce di splendore insanguinato. Per
la vostra bocca morta io vengo a parlare. Attraverso la terra unite tutte le
silenziose labbra sparse e
dal fondo parlatemi per tutta questa lunga notte, come
se io fossi con voi ancorato, ditemi
tutto, catena per catena, anello
per anello, passo per passo, affilate
i coltelli che avete conservato, posateli
nel mio petto e nella mia mano, come
un fiume di fulmini gialli,come come
un fiume di tigri sotterrate, e
lasciatemi piangere, ore, giorni, anni, età cieche, secoli stellari.
Datemi il silenzio, l’acqua, la speranza. Datemi la lotta, il ferro, i vulcani. Aderitemi i corpi come calamite. Accorrete
alle mie vene e alla mia bocca. Parlate
con le mie parole e il mio sangue. da “Altitudini di Macchu Picchu” di Pablo Neruda
L’altra
riva (...) A livello sociale il fatto della morte è un
po’ il modello di ogni destino che è imposto. Guardate attorno a cosa
succede: ci sono le guerre, cambia il governo, succedono altri fatti; sembrano
delle cose come la morte, che capitano così, pare che noi non c’entriamo per
niente; un destino imposto, non voluto, estraneo, che io non controllo. E’ molto simile a ciò che succede in un certo tipo
di sistema sociale, dove le cose vengono presentate come estranee, non volute,
come casuali. Da questo punto di vista c’è chi ci sguazza in
questa roba: la morte è eterna e, se è eterna, cosa vuoi cambiare? Se la morte
è eterna, questo destino imposto, estraneo e casuale, sono eterni anche i
rapporti sociali, le condizioni sociali in cui stiamo vivendo. Il carattere costante e maestoso della morte è molto
simile al fatto di considerare che le cose come stanno in genere sono molto
ovvie: non si può cambiare. C’è questa grossa somiglianza: si ha
l’impressione che il potere giochi molto su questo dimenticare la morte, sul
lasciar passare il carattere costante della morte. Un buon contributo a questo modo di vedere lo ha dato
anche la chiesa, quando su tutta questa morte che la società produce - la fame,
la miseria, lo sfruttamento... - sovente ha fatto planare una specie di morte
metafisica, che unisce la morte umana alla morte ineluttabile della natura. La
chiesa, e non solo la chiesa, fa questo passaggio considerando tutte e due la
stessa cosa. Quella morte, che è oggetto di natura, viene
comodamente unita, considerata la stessa cosa, come la morte da fame, da
sfruttamento, da violenza, prodotta dal sistema sociale, da oppressione. Viene
considerato tutto come una cosa sola. Questa è l’operazione ideologica di cui
la chiesa ha una grande responsabilità e l’apparato sociale ha utilizzato
questo molto bene. Non c’è nessuna distinzione tra la “morte” naturale e
la “morte sociale”, cioè prodotta dai rapporti sociali: vengono unificate
come se fossero la stessa cosa. Quindi facendo silenzio sulla morte, privando
l’uomo della sua morte, della sua agonia, della sua condizione di morte, il
sistema sociale distrugge l’uomo nel suo essere. Lo priva forse di una delle
poche esperienze riflessive su una fase importante della vita (...). Tratto da “L’uomo di oggi di fronte alla morte”, conversazione del ciclo “Una comunità cristiana riflette sul problema della morte”, maggio 1979, Comunità di S.Lazzaro.
L’altra riva In ‘Voci dal Silenzio’ di Louise Kaplan una madre
perde la figlia adolescente, trasforma la sua camera in un museo di ricordi e
parla con lei nel chiuso del suo dolore, un figlio tenta una tardiva
riconciliazione col padre morto provando a realizzarne i desideri, un altro
riversa su di sé la rabbia per “l’abbandono” patito... Chiunque abbia subito la perdita di una persona cara,
precipita nel cuore di secolari dilemmi filosofici e psicologici, e sperimenta
su di sé quanto sia difficile procedere nella cosiddetta ‘elaborazione del
lutto. Infatti, al di là dei rituali del cordoglio - che
esternano o nascondono il dolore a seconda delle usanze collettiva- e delle
maschere di pudore e convenzione rivolte all’esterno, spesso si tende a
ripristinare ad ogni costo il dialogo con la persona scomparsa. Un dialogo
pietrificato nella rivisitazione di un ricordo infantile o di un rammarico mai
risolto, nel desiderio di una carezza sospesa o nella nostalgia di uno sguardo
che si crede di ritrovare in ogni volto. Un dialogo comunque sintomo del nostro
essere sociale. La comunicazione con la madre è infatti un bisogno vitale del
neonato fin dai suoi primi vagiti. Quasi tutti gli psicologi hanno così
indagato ultimamente i complessi intrecci emotivi e cognitivi del dialogo fra
madre e neonato, dimostrando ulteriormente l’importanza della ‘reciprocità’. In questa chiave di sviluppo si pone anche il saggio
di Luise Kaplan, che affronta il tema della perdita, e il tentativo di chi resta
di “riscoprire i propri cari perduti ristabilendo e facendo rinascere i
dialoghi troncati”. (...) Il punto di maggior interesse del suo saggio si
riscontra negli esempi storici da cui quest’autrice trae le sue ‘Voci dal
silenzio’ : il silenzio indicibile dei sopravvissuti dell’Olocausto e le
ripercussioni sui loro figli. E l’urlo delle madri dei ‘desaparecidos’
argentini - che sfilavano in silenzio, il capo coperto dai pannolini bianchi dei
loro figli scomparsi - trasformato poi in un grido di lotta capace di mettere in
crisi il silenzio bieco degli aguzzini. (...)
L’altra riva Perchè ci leghiamo a così tante cose, dal momento
che dovremo lasciare tutto, un giorno? Potremmo risparmiarci molte pene. perchè
teniamo così accanitamente alla vita, dal momento che è assolutamente certo
che moriamo? La vita è un distacco. Lo sappiamo. Ogni nuova conquista significa anche
rinunciare a qualcos’altro. Ogni nascita significa, per la mamma, sacrificare
parte della propria vita, della propria persona. Ogni volta che si fa una
scelta, si lasciano perdere tutte le altre possibilità. Un giorno in più di
esistenza, è un giorno in più verso la morte. La vita è un distacco. E il
contrario? Non è ugualmente vero che distaccarsi è vivere? In ogni istante della nostra esistenza, diciamo addio
a qualcuno o a qualcosa. Sotto mille forme diverse. Sono tutte forme di
sofferenza. Ma noi non amiamo la sofferenza, tendiamo a fuggirne. E a buon
diritto, perchè siamo fatti per la felicità e per la gioia. Cosa potremmo fare per addolcire la sofferenza
dell’addio? La sofferenza di invecchiare, di vedere deperire le nostre forze;
la sofferenza di perdere una persona cara: un bambino, una compagna di vita, un
fratello o una sorella, un parente o un amico, una vicina di casa; la sofferenza
per aver perso il lavoro o per avervi dovuto rinunciare, per un fallimento, per
un colpo inferto alla propria reputazione, per tutte le occasioni mancate; la
sofferenza per le tensioni e le ferite in ambito ecclesiale, per il venir meno
di valori importanti o della fede, per i giovani che si mettono sulla cattiva
strada; infine, la sofferenza per la nostra stessa morte, che si avvicina
inesorabile. Letture/ da :“Dire addio. Vivere nella fragilità”, Lettera pastorale, Card. G. Dannels, Pasqua 1995
L’altra riva Il dolore è qualcosa che sta dentro di noi. Sotto la
scorza. Tuttavia, vi sono degli indici esteriori. Si può anche intuire
qualcosa. Ma non sono che sintomi. Il dolore che si prova all’atto di una
perdita è un’esperienza interiore. “Eh,
se lei potesse guardarmi dentro!”, dicono più o meno quelli ai quali, a scopo
consolatorio, si fa notare che hanno l’aria in forma e che hanno
splendidamente reagito alla loro disgrazia. Tale considerazione dovrebbe essere sufficiente a
proteggerci dalla tentazione di parlare troppo presto. Questo tipo di
consolazione spesso è solo un impacco sulla superficie della piaga, mentre si
tralascia di intervenire contro il pus che l’infetta in profondità.
“Comunque, aveva raggiunto una bella età.” - “Negli ultimi tempi, la sua
esistenza era ridotta a malattie e sofferenze: per lui è stata una
liberazione”. - “Non aveva figli: per fortuna non lascia nessuno dopo di sè”... Parole come queste non portano nessuna consolazione:
non guariscono il cuore, si accontentano di lisciare l’epidermide. La sola via
possibile è ascoltare e cercare di vivere in empatia. dare al dolore il suo
diritto di cittadinanza, riconoscerlo nella sua dignità, entrarvi e non fare
deviazioni. Ascoltare equivale spesso a decifrare un rebus: si percepiscono
alcune lettere e segni, e bisogna ricostruire l’intera frase. O ancora, è
come quel quiz televisivo in cui ogni dieci secondi ti danno una lettera in più
di una parola che tu devi scoprire. Se cerchi d’indovinare troppo presto,
perdi tutte le possibilità. Così, la prima condizione per poter aiutare è
quella di prendersi del tempo, di non giudicare o concludere prematuramente, di
lasciare che il dolore si esprima. Perché non si deve fermare il pus. Letture/ da :“Dire addio. Vivere nella fragilità”, Lettera pastorale, Card. G. Danneels, Pasqua 1995
L’altra
riva Al giorno d’oggi, per fortuna, si sta sempre più
vicini ai congiunti delle persone che si suicidano.Non molto tempo fa , le case
e i luoghi dove uno si era dato la morte costituivano l’oggetto di un rifiuto
collettivo. L’opinione pubblica, la predicazione e la catechesi cercavano di
porre un freno a questo modo nefando di morire attraverso l’intimidazione. Nei
cimiteri c’era un angolo di “terra non benedetta” riservato ai bambini non
battezzati e ai suicidi. Erano come segnali sulla fronte, alla maniera di Caino. C’è stata in merito una grande evoluzione. Come aiutare i congiunti di una persona che ha posto
fine ai suoi giorni? Talvolta si cerca di consolarli accanendosi nella
ricerca delle cause dell’atto: una spiegazione a scopo consolatorio. Le persone tentate dal suicidio vivono spesso in una
bolla di sapone: si isolano. Non li colpisce più niente, anche se vedono e
sentono tutto. I loro parenti hanno
colto in effetti qualche segnale. Ma si tranquillizzano ricorrendo alla saggezza
popolare, che dice che chi ne parla molto non lo fa. Del resto si sentono
impotenti e ripetono : “Purché
non ci tocchi anche questo!”.Oppure si consolano pensando che il medico o lo
psichiatra sono persone competenti: ne hanno cura loro, noi da soli ne siamo del
tutto incapaci. E i congiunti dopo che è successo? Ci sono dei gruppi di aiuto reciproco piuttosto buoni
dove ci si può esprimere liberamente.Ricordare i precedenti, attenuare i sensi
di colpa, superare lo sfinimento. In questi gruppi si impara a ridare senso
all’esistenza. La principale pietra d’inciampo nei casi di
suicidio è la ricerca del perché. Vorremmo sapere in seguito a che cosa si è
arrivati a quel punto. La causa è in lui o in lei, in noi, nella situazione di
quel momento, nel passato? Questo desiderio è legato alla nostra profonda
convinzione che riuscire a spiegare una situazione significa averne il
controllo.(...) “Dire addio. Vivere nella fragilità”.
Lettera pastorale, Card. G. Danneels, Pasqua 1995
L’altra
riva “C’era una
volta un re / seduto sul sofà / che disse alla sua serva / raccontami una
storia / la storia cominciò / c’era una volta un re / seduto sul sofà / che
disse alla sua serva / raccontami una storia / la storia cominciò ... e
ricominciò Io
sono sieropositiva. Scrivo , affinché la mia dichiarazione sia
ineluttabile. L’ho deciso il giorno in cui sono diventata grande e ho capito
che posso fare quello che voglio anziché quello che posso. Lo dichiaro per rivendicare il diritto, il mio posto
nel mondo: non voglio essere complice di un processo di disumanizzazione che si
compie a partire dalla paura. A me e al mio virus spetta uno spazio che nessuno,
neanche io, deve togliere. Voglio provare ad essere solidale con me stessa:
facile schierarsi al fianco dei negletti senza condividerne la condizione. Il
prezzo di questa dichiarazione sarà altissimo, ma molto più alto sarebbe
quello che pagherei se tacessi. Preferisco morire di Aids che di paura. E’ a partire dall’esempio del mio indomito virus
, che scrivo. C’è qualcosa che spetta in sorte a ciascuno di
noi, e non la sorte possiamo cambiare, bensì la nostra interpretazione degli
eventi. Io per me decido di camminare a testa alta per il mondo, fiera di quello
che fu e fiduciosa di quello che sarà, perché nelle mie azioni mi voglio
riconoscere. Alziamo la testa, noi vinti dalla sorte: la peste del
secolo non si chiama Aids, si chiama paura. Io non sarò tra gli appestati.” “Io sono sieropositiva”, di
Carla Angius - Copie del libro sono disponibili presso
l’associazione A.S.P.Rc. Vo.S.O.S. , via Corelli 27 Cagliari - tel.
070/488094
L’altra riva Il
lutto, la giustizia, la conoscenza La storia del movimento operaio e della sinistra è
una storia di conflitti e di rischi; è stata accompagnata in tutte le sue fasi
dalla repressione dura, anche sanguinosa, da parte di milizie private ma più
spesso ancora da parte dell’organizzazione militare dello Stato; così come ha
generato a più riprese al suo interno o ai suoi margini centri di azione
violenta, animati da progetti rivoluzionari, o dalla pura e semplice
disperazione, dalla fine di ogni fiducia in una vittoria pacifica. Fin dalle origini del socialismo, quindi, la sinistra
ha dato grande spazio, nei suoi riti e nelle sue tradizioni, al cordoglio e alla
celebrazione dei propri martiri. Così, la strage detta di “Peterloo” (nome
tratto per imitazione da Waterloo) segna, subito dopo la fine delle guerre
napoleoniche la nascita del movimento operaio inglese e costituisce da allora
uno dei suoi più sacri ricordi; così, per la sinistra italiana i cannoni di
Bava Beccaris e i morti di Milano del 1898 sono rimasti indimenticati. In questa tradizione del cordoglio pubblico sta del
resto uno degli elementi che maggiormente hanno legato, da sempre, la sinistra
alla tradizione religiosa cristiana, che ha anch’essa fortemente radicato al
proprio centro il culto dei martiri.(...) Non è un caso che una parte consistente degli
archivi filmici della sinistra italiana sia costituita da documenti, come quelli
presenti in questa antologia, che hanno per tema centrale proprio la morte di
militanti, e gente comune, e il lutto.(...) Nel celebrare i suoi morti- un
tempo- il movimento operaio, anche
nelle sue ali più riformiste e legalitarie, non chiedeva nulla a una giustizia
di Stato che si riteneva comunque orientata dalla classe dominante; cercava
piuttosto una conferma della propria identità da tramandare(...) Dalla presentazione di Peppino Ortoleva del documentario “Tre donne in nero” a cura di Paolo Pietrangeli - diffuso da l’Unità -1997
L’altra riva - il pensiero di alcuni anziani di fronte alla morte Argomento sgradito la morte? Non sempre e non per
tutti gli anziani è così. “Ovvio che non la ricerco - dice Ernesto A. , 78
anni - ma quando vedo che la mia famiglia è a posto, i figli mi portano
rispetto e tra loro c’è armonia, m’affiorano spesso alle labbra le parole
del vecchio Simeone ‘ Ora o Signore, lascia che il tuo servo vada in pace,
perchè i miei occhi hanno visto la tua salvezza’”. A spaventare è invece la malattia, l’ospedale,
l’estenuante terapia dei medici che ti prolungano la vita di settimane o mesi
senza però essere risolutive di alcunchè. Di fronte a questa situazione due le
soluzioni invocate. La prima richiama l’eutanasia espressa in forme più
o meno brutali. “Preferirei buttarmi sotto un treno piuttosto di soffrire per
mesi e mesi senza alcuna prospettiva di guarigione” dice Giacarlo B. , 67
anni. Altri parlano di eutanasia più ‘soft’, comunque
da molti non si vedrebbe poi così male la possibilità di poter scegliere una
morte rapida nel caso in cui ci si trovi in uno stadio terminale ed
irreversibile. Posizione diversa, per chi è credente, che sprime
maggiore disposizione ad accettare la malattia, così come viene dalle mani di
Dio. Esprimono però il desiderio e la speranza di morire in casa e non in
un’asettica e fredda corsia d’ospedale “Ho già detto e ho ripetuto più
volte a mia figlia che se vengo colpito da u n ictus, o da qualche altra grave
diavoleria, non si precipiti a scaricarmi in un’ospedale; io voglio morire nel
mio letto e senza troppi tubi e tubicini che ti sconnettono del tutto in un
momento così importante come l’andarsene da questo mondo”, s’esprime così
Eugenio, un simpatico arzillo vecchietto di 87 anni (...) da un articolo su L’Eco del Chisone , 13 febbario 97- Inchiesta sugli anziani L’altra riva L’ultima
frontiera della morte Per qualche tempo, da un minimo garantito di 18 mesi
a un massimo di dieci anni, vagheranno in orbita prima di ricadere sulla terra e
bruciare in un’ultima fiammata al rientro nell’atmosfera. Nella lunga storia
dei riti funebri e dei complicati esorcismi umani davanti all’ultimo addio
questo è il primo funerale nello spazio. Di tutti i 24 astronauti di cenere (
in due tubetti grandi come un rossetto per labbra) che da ieri ci orbitano sulla
testa soltanto Tim Leary, l’apostolo dell’LSD aveva espresso il desiderio
esplicito di essere sepolto nello spazio. Il loro becchino siderale è una società di Houston,
la città del comando NASA per le missioni spaziali dei vivi, che si è data
l’appropriato nome di “Celestis”. La “Celestis” ha una lista d’attesa di 300
candidati al funerale spaziale e i becchini a razzo promettono lunghe attese.Ora
non si sa bene se sorridere o se
piangere, se compatire o invidiare, davanti a questo sfoggio di tecnologia
inutile , a questo spreco di denaro. Nell’America, sopratutto, che tratta la morte come
un insopportabile e inopportuna interruzione del ‘sogno americano’, le spese
per funerali, cimitari, tombe, riti sono gigantesche, pari allo 0,2 per cento
del prodotto interno lordo ( nel 1993 tremila e cinquecento miliardi di lire). In California già si pratica il congelamento a
bassissime temperature di facoltosi estinti che sperano di essere scongelati e
riportati in vita quando saranno trovate cure per il male che li ha uccisi. Vedremo tra non molto cimiterini sulla Luna, tumuli
su Marte, tombini orbitanti, come oggi qualcuno prevede?
da un articolo di Vittorio Zucconi su Repubblica del 22 aprile 1997 L’altra riva Torino è la città con la più alta percentuale di
cremazioni. Ogni anno Torino registra circa 11.800 decessi, i cui funerali si concludono per il 39% fuori del
Comune di Torino. Dei defunti residenti a Torino o aventi diritto alla sepoltura
nella città, le cui spoglie restano nei cimiteri cittadini, la scelta nel 1995
, è stata : - il 33% sepoltura in terra - il 46% tumulazione in loculi - il 21 % cremazione. Queste percentuali rispecchiano l’orientamento
della popolazione di una grande città industriale in relazione alla presenza
storica di una Società per la Cremazione che ha saputo resistere a tutte le
discriminazioni del passato. La percentuale media delle cremazioni sui decessi
in Italia è del 2,5%. Nel 1995 le cremazioni effettuate dalla SOCREM di Torino
corrispondono al 14% delle cremazioni avvenute nell’intero territorio
nazionale. Sono 22.000 i soci della Socrem. La Società per la Cremazione di Torino per statuto
deve promuovere e partecipare ad iniziative culturali affini alla cremazione -
sviluppate attraverso tre settori: il Centro Studi Ariodante Fabbretti, la
rivista “Confini” e l’Istituto Cultura e Società ‘Luigi Pagliani’. Dal sommario del periodico ‘Confini’- settembre
1996 - ricaviamo questi titoli: La Morte? E’ incurabile (Società) di Carlo Grande
- E’invisibile, fa paura (Psicologia) di Aldo Carotenuto - La morte, compagna
impresentabile (Costume) di Paolo Guzzanti - Così si spegne l’uomo macchina
(Società) Ferdinando Camon - Uno scheletro di celluloide (Cinema) di Lietta
Tornabuoni - Ballando con l’Aids (Danza) di Sergio Trombetta - Le strip della
signora in nero (Fumetti) di Guido Tiberga- Quando la fine si mette in posa
(Fotografia) di Marcella Filippa - Sono sepolto nel tuo computer (Informatica)
di Pino Corrias - Con l’ultimo suono (Musica) di Sandro Cappelletto -
Estinguersi. Che male c’è? (Ecologia) di Lino Sacchi - “Se chiudo gli
occchi, la vedo” (Teatro) di Gabriele Romagnoli - Sempre insieme (Racconto) di
Igor Man. E inoltre Recensioni e Lettere. Il quadrimestrale ‘Confini’ monotematico ma non
monotono, come si vede . direttore Silvano Costanzo, si può avere in
abbonamento . Inviare £.10.000 sul c.c.p. 32240103
L’altra riva Parole
dell’Ecclesiaste, figliuolo di Davide, re di Gerusalemme. Vanità
delle vanità, dice l’Ecclesiaste (...) Per
tutto v’è il suo tempo, v’è il suo momento per ogni cosa sotto il cielo: un
tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per
svellere ciò ch’è piantato; un tempo per uccidere e un tempo per guarire; un
tempo per demolire e un tempo per costruire; un tempo per piangere e un tempo
per ridere; un tempo per far cordoglio e un tempo per ballare; un tempo per
gettare via pietre e un tempo per raccoglierle; un tempo per abbracciare e un
tempo per astenersi dagli abbracciamenti; un tempo per cercare e un tempo per
perdere; un tempo per conservare e un tempo per buttare via; un tempo per
strappare e un tempo per cucire; un tempo per tacere e un tempo per parlare; un
tempo per amare e un tempo per odiare; un tempo per la guerra e un tempo per la
pace. (...) Qoélet 1,1-2 ; 3, 1-8
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