ricordando Sandro Sarti |
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Quando si cerca di ricordare, attraverso le parole, un amico, dopo
la sua morte, si cade sempre nell'illusione di poterlo davvero fare; poter
sintetizzare in poche frasi le caratteristiche di una personalità e il senso di
un 'esistenza. Pensiamo di poter dire perché ci illudiamo di possedere, e
dunque di poter esprimere, la verità profonda di quell'esistenza. E questa -
le parole di chi è ancora vivo - è forse la violenza più grande e più inevitabile che subiscono i
morti. La vita di Sandro Sarti ci ha liberati, a priori da questa
illusione, foriera di violenza: perché non solo da oggi, ma da sempre, era
implicito che non sarebbe stato possibile mai sintetizzare compiutamente
l'itinerario della sua biografia, né tanto meno carpire in gabbie di parole la
verità profonda della sua vita. E tuttavia necessario spiegare perché, pur nella consapevolezza di
questa ineludibile parzialità, vogliamo ricordarlo a chi non lo ha conosciuto e
con uno spazio che non appartiene alla tradizione né di GE né più in generale
dei protestanti. E dobbiamo provare a dire qualcosa di lui. Aveva, come tutti, un 'età anagrafica, è chiaro, ma anche un suo
particolarissimo modo di rapportarsi alle persone e ai problemi che ha spezzato,
e da sempre, l'appartenenza generazionale. Come quelle d'ambiente. Al suo funerale nella terra dei valdesi in cui era tornato a vivere
negli ultimi anni e dove (è del tutto un caso?) è andato a morire, si sono
riuniti insieme uomini e donne per cui Sandro è stato fondamentale, alcuni che
hanno condiviso tra loro la vita e le scelte fondamentali molti che non si erano
mai visti prima o che forse hanno adesso poco da dirsi reciprocamente: un
radicamento profondo in molte esistenze diverse si è intrecciato dunque, per
Sandro, ad un continuo spezzare la logica della appartenenza ad un solo
"giro" e ad un solo linguaggio. E sono stata confortata da questo
strano paradosso: che, anche dopo la morte, Sandro sia riuscito, in qualche modo
e per un momento, a continuare quel che aveva fatto per tutta la vita, mettere a
contatto culture e sensibilità diverse, intessere relazioni imprevedibili,
rompere chiusure. Qual era poi il suo mestiere? Si potrebbero dare tante risposte. Un
traduttore. Un giornalista geniale e senza potere. Uno che faceva politica,
attraverso i percorsi e le forme più svariate, non ultima l'interesse per la
teologia. Un formatore delle coscienze, che avrebbe però rifiutato questa
definizione. E certo molto altro ancora. E così i ricordi si intrecciano, nella contraddittorietà più
radicale; resta la traccia della sua solitudine e quella indelebile del suo
umorismo dissacrante; resta la sfida di un 'assenza totale, assoluta di
attaccamento al prestigio e al possesso; resta l'immagine del suo corpo magro e
della sua reticenza a curarlo; il senso di una altissima e multiforme
professionalità mai venduta sul mercato, la molteplicità e il variegarsi degli
interessi insieme ad una coerenza di scelte, che lo ha sempre visto fuori dai
ranghi (il che ha anche i suoi vantaggi) e dentro l'opposizione (che invece è
scelta faticosa, quando è spesa tra la gente e quando dura tutta una vita);
l'intreccio raro di una fortissima, testarda litigiosità (che ha anche a volte
ostacolato e amareggiato la possibilità di rapporto con lui) unita ad una
capacità anche questa rara di donare e di chiedere, di disperdere e di
realizzare, di finire e di ricominciare. Questa contraddittorietà non possiamo né vogliamo sciogliere. E
se ci attardiamo a parlare di lui non è tanto per l'affetto o per la stima che
molti amici della rivista gli hanno portato, ma per altro; la storia, è noto,
la racconta chi vince; o perlomeno chi è capace di lasciare di sé una traccia
resistente al tempo, oggettivata in "cose" (libri, ruoli, costruzioni
materiali o istituzionali) che si possono toccare e quantificare. Parlare di
Sandro ha per noi il senso di attribuire valore alle "cose che non sono ",
a quelle cose, come la sua vita, le sue scelte, il suo impegno che, per
il fatto di non aver vinto o di "non avere avuto successo': appaiono non
essere. Questa attenzione a non permettere che le tracce delle persone e
delle esperienze siano disperse e cancellate la dobbiamo un poco a Sandro e
molto ai più giovani tra noi perché là dove non c'è
memoria non c'è neanche
libertà. francesca
spano
giugno luglio '59... Vittorio Rieser Giugno-luglio
'59: scioperi per il contratto nazionale dei metalmeccanici. Una lotta
difficile, dopo anni di sconfitta operaia. Di fronte alla RIV (il vecchio
stabilimento di via Nizza), nei picchetti, ci sono anche molti studenti e altre
persone solidali con la lotta operaia (Gianni Vattimo ne ha recentemente parlato
in una sua intervista). I criteri repressivi della polizia sono estremamente
rigidi: il picchetto deve stare "dall'altra parte della strada",
lontano dai cancelli. In uno dei frequenti momenti di scontro, un operaio (o
forse più di uno) viene preso e caricato su una camionetta. Questa parte per
portarlo in Questura. Nel picchetto c'è Sandro Sarti, che non ha solo studiato
le forme di lotta non-violenta (ad es. americane), ma le sa praticare: di
scatto, si butta a terra davanti alla jeep (Sandro ad Agape era noto per
l'abilità nel "saper cadere" nei suoi sketches da clown...). La jeep
è costretta a bloccarsi. L'operaio viene liberato dai suoi compagni. Più
tardi, al bar, a sciopero riuscito, operaie ed operai del picchetto -
sobriamente, ma con grande affetto - si affollano attorno a Sandro, gli battono
una mano sulla spalla, gli stringono la mano. E a chi non ha visto, perché era
lontano, raccontano quello che Sandro ha fatto. Sandro
Sarti è stato per me, oltre che un amico, un maestro. Credo che siamo in molti
a dire la stessa cosa. Eppure Sandro era un uomo solo, ed è morto solo. C'è di
che riflettere su questo. Ma vorrei evitare la retorica, o la comoda
autocritica, e cercherò di limitarmi a raccontare qualcosa di lui. Elenco
alla rinfusa di cose che Sandro mi ha insegnato (che poi io le abbia imparate
bene, è un altro discorso ): - mi
ha mostrato come dovrebbe essere fatto un buon giornalismo
"militante", come strumento di comunicazione, di informazione da
fornire alle persone perché queste possano utilizzare l'informazione come loro strumento (e non perché ne ricevano la "giusta
linea"); - mi
ha insegnato un bel po' di cose sulla teologia protestante, ma anche a
"leggere" e capire le posizioni dei cattolici (quelli credenti, come
il gruppo de Il Gallo che mi fece
conoscere a suo tempo); - mi
ha insegnato a fare il caffè "corretto a monte", con la grappa, o il
rhum, o il whisky, mescolati (in proporzioni variabili a seconda del liquore)
direttamente con l'acqua della macchinetta, e con un sottile velo di zucchero
sul filtro; - mi
ha insegnato, e mostrato concretamente, cosa significava per lui come cristiano,
ma cosa può significare anche per un non credente, non "lasciarsi
integrare" da questa società, e non in termini di posizione ideologica ma
di vita e di azione concreta; - mi
ha insegnato come si raccontano le barzellette (in più lingue: inglese,
italiano e piemontese); - mi
ha fatto capire cos'era la Resistenza, al di là degli schemi interpretativi
generali, nelle sue esperienze anche contraddittorie e terribili; - mi
ha insegnato che la "sinistra" non è solo quella che corrisponde ai
nostri schemi ideologici, ma la puoi trovare dove non te lo aspetti: per questo
devi informarti, essere curioso e
aperto verso quel che succede. L'elenco
potrebbe continuare. Ma vorrei un momento riflettere su Sandro, su due aspetti -
che sono alla radice di molti dei suoi insegnamenti: il suo essere cristiano, la
sua professionalità. Può
sembrare strano, o improprio, che un non credente (e rimasto tale) parli del
cristianesimo di Sandro. Ma, se non sbaglio, la testimonianza non è rivolta
solo a quelli che credono, ma anche agli altri - e non è fatta solo per
convertirli. Sandro
ha fatto capire, a chi era disposto ad ascoltare, cosa significa "chi vuoi
perdere la propria vita la salverà, chi la vuoi salvare la perderà", e
cosa significa "essere nel mondo
ma non del mondo". Certo, non è
il solo, e il suo non è il solo modo. Fatto sta che lui si è sempre messo
totalmente in gioco: quando ha scelto di fare il partigiano, quando si è
buttato anima e corpo nell'impresa di Agape, quando ce lo siamo ritrovati
accanto nel '68 ma anche quando, nella fase del "riflusso", non si è
lasciato imprigionare nell'alternativa tra integrazione o lamentosa
rassegnazione, e ha continuato a fare cose concrete, ad esempio per i compagni
palestinesi. E per questo ha rinunciato (non per "ideologia della
sofferenza", ma come conseguenza di fatto) anche agli aspetti elementari di
tranquillità, benessere, continuità nella propria vita: è stato un instabile,
un povero, un isolato. Uno "spostato": così il "senso
comune" di molti, inclusi molti suoi correligionari, ha letto i suoi
comportamenti. E uno "scomodo", da cui a volte ci si teneva lontani, a
cui non si era disposti a dedicare tempo, anche per molti di noi: e anche su
questo dovremmo riflettere. Ma
questo "spostato" era anche un esempio di eccellente professionalità in molteplici campi (è curioso che anche questo
sia un elemento protestante, di quel protestantesimo "borghese" di cui
Sandro poteva sembrare l'antitesi). Non
sta a me parlare di uno di questi aspetti di professionalità, cioè della sua cultura
teologica - che credo fosse tutt'altro che disprezzabile. Né
posso dire molto sulle sue eccezionali qualità di traduttore
- che si intrecciavano con la sua curiosità e il suo "fiuto"
culturale. Vorrei però ricordare un episodio. Già prima del '68, Sandro ci
fece conoscere tra gli altri aspetti della cultura americana - le poesie di
Lawrence Ferlinghetti: e una sera ce ne tradusse, a voce, una in piemontese, che secondo lui rendeva meglio l'atmosfera; con un
effetto di straordinaria efficacia. Ma
l'aspetto della sua professionalità che conosco più da vicino riguarda l'informazione.
Ho partecipato infatti con lui a due sue iniziative, in cui diede il meglio
di sé: il bollettino quotidiano del movimento studentesco del '68 (che uscì
nei primi mesi di quell'anno) e il collettivo CR ("Comunicazioni
Rivoluzionarie"), di poco posteriore. Il
bollettino quotidiano del movimento fu una sua idea geniale, e fu (sia pure per
breve tempo) il "collante di massa" del movimento quando questo
rischiava di restringersi a un fatto "di avanguardia". Non a caso,
quando alcuni di noi furono arrestati, il pubblico ministero che ci interrogava
(e che, ironia della sorte, si chiamava Amore) batteva e ribatteva e ribatteva
per sapere chi era la "testa" di questo bollettino, che riteneva
essere lo strumento centrale di organizzazione del movimento: e devo dire che
nessuno di noi "tradì" Sandro. Ma, al
di là del significato politico, vorrei sottolineare gli aspetti più"professionali"
della concezione giornalistica di Sandro, che si traducevano nell'impostazione
del bollettino: - l'informazione
al primo posto, reprimendo le ricorrenti tentazioni ideologiche di tutti
noi: e infatti il bollettino era un vero e proprio giornale, un mini-quotidiano,
leggibile, stringato, "secco"; - il
linguaggio: una volta ci sottopose a una sorta di "esercitazione",
consistente nella soppressione o sostituzione di tutte le parole difficili o
vuote (ideologiche), che ci lasciò un po' sconvolti; se l'avessimo dovuta
applicare fino in fondo, il giorno dopo in assemblea, dopo aver chiesto la
parola, avremmo dovuto alzarci e restare in silenzio... Un
esempio concreto della sua genialità giornalistica: la
Stampa (allora violentemente contraria al movimento studentesco) veniva -
allora come oggi - distribuita a mezzanotte in alcuni punti di Torino. Noi
andavamo a comprarla, e il giorno dopo uscivamo, in contemporanea, con articoli
di risposta "in tempo reale" a quelli della Stampa dello stesso
giorno! Per questo - e per il perfezionismo professionistico di Sandro, oltre
che per la dispersività sua come di tutti - ogni volta si facevano le tre o le
quattro del mattino, e molti di noi sarebbero stati stroncati, se non fosse
intervenuto un provvidenziale periodo di latitanza forzata e poi di carcere
(breve, e nelle condizioni abbastanza "comode" di quei tempi)... Il
collettivo CR, col relativo bollettino, fu la "risposta" di Sandro
all'involuzione del movimento, e al suo irrigidirsi in spezzoni ideologici e
settari: la ripresa dello studio della sinistra americana (che già, anche
grazie a Renato Solmi, aveva avuto un'influenza sulla nascita del movimento
studentesco torinese), nei suoi vari aspetti, dalle Black Panthers ai movimenti
di lotta contro la guerra del Viet-Nam - e ancora una volta con l'informazione
al primo posto, senza fronzoli e senza fare lezioncine politico-ideologiche;
con un'attenzione (che a volte ci sembrava quasi ossessiva) al linguaggio, alla
forma grafica, insomma a tutti gli aspetti anche "tecnici" della
comunicazione scritta. Queste
"imprese giornalistiche" si esaurirono purtroppo in breve tempo (anche
se ciò non significò la fine dell'impegno di Sandro su quel terreno): quanto
per l'inquietudine e l'instabilità di Sandro, o quanto perché molti di noi
preferirono forme di impegno che ci sembravano "più direttamente
politiche"? magari con la motivazione aggiuntiva che lavorare con Sandro
era difficile, che ti prendeva troppo tempo... Già allora, in qualche modo, lo
si è lasciato solo. un adolescente e un saggio Maria Teresa Fenoglio Sono
della generazione del '68, e ho adesso circa l'età che aveva Sandro quando lo
conobbi io ero nella prima giovinezza, che in quegli anni per una ragazza
piccolo borghese era di fatto un'adolescenza; lui aveva 44 anni. Sapevo che era
sceso a Torino da Agape, perché, come lui stesso dichiarava, non era l'epoca in
cui si potesse stare ritirati nella propria tana. In una soffitta dello stesso
palazzo in cui era la sede dei Quaderni Rossi trafficava con una radio
ricetrasmittente che gli consentiva di ricevere notizie di prima mano sulla
guerra nel Viet-Nam. Per vivere faceva il traduttore: batteva a macchina
velocissimo con le sue dita, fiero dell'efficacia della propria attitudine
artigianale, così come lo era del proprio inglese, appreso negli USA, che
parlava in modo perfetto dal punto di vista del lessico, ma con una accentuata
cadenza piemontese: una forma di snobismo, o di moralismo, con cui intendeva
sottolineare la sostanza a danno della forma. La
prima impressione fisica che ebbi di lui, sigaretta e macchina da scrivere, fu
di un corpo flessuoso, di una aristocrazia dei modi: camicia militare aperta sul
collo, piedi scalzi portati con eleganza, di lui pensai, "Henry Miller!"
: Sandro mi ricordò l'intellettuale americano degli anni '50. Sandro
e l'America sono per me indissolubilmente legati. Lui vi aveva soggiornato a
lungo dopo la guerra, a seguito di progetti di scambio delle chiese
presbiteriane: non ne parlava molto (centellinava i ricordi, tanto era proteso
sull'oggi), ma so che aveva anche lavorato come inserviente in un sanatorio, e
non dimenticherò la sua descrizione delle nebbie che salgono dalla baia di S.
Francisco e del brulichio di esercito notturno nella metropolitana di New York,
i lavoranti di colore che tornano a casa la sera dopo aver ripulito i
grattacieli del grande business. Per me e per gli altri giovani del collettivo
CR ("comunicazioni rivoluzionarie") da lui fondato, che si occupava di
comunicazione e scambio tra il movement italiano
e quello americano, Sandro ha rappresentato l'apertura su una realtà culturale
- quella americana e quella protestante che nessun turismo giovanile anche del
sacco a pelo avrebbe potuto disvelarci. Per quattro anni consecutivi egli fece
in modo che alcuni di noi, a turno, soggiornassero in America lavorando fianco a
fianco con i "fratelli" americani in uno scambio che aveva come comune
sfondo ideale l'internazionalismo e la costruzione di una società più giusta.
Diventarono i nostri modelli le Pantere Nere, i G.I. (i soldati americani, tanti
dei quali - avevamo scoperto - organizzati contro la guerra del VietNam), the
people, cioè le comunità etniche e di quartiere tese a costruire, da
subito (do it nowl) una vita vivibile
e solidale. E infine le donne del women 's
movement (movimento di liberazione delle donne). La sua idea della
informazione rivoluzionaria, fondata sul legame indissolubile tra conoscenza e
azione (odiava i libri di storia scritti viaggiando da una università
all'altra), non solo "tiene" nel tempo, ma è alla base delle moderne
teorizzazioni sulla comunicazione e l'apprendimento in psicologia sociale. Intuì
con molto anticipo la necessità di una saldatura tra l'impianto teorico e
l'enfasi organizzativa della sinistra italiana e la vitalità e le proposte dei
movimenti spontanei di massa. Nessuno
di noi del collettivo era valdese, o protestante: ma né Sandro né alcun altro
delle Chiese che allora ci aiutarono patrocinando il nostro progetto di lavoro
in America pronunciò con noi una parola di proselitismo, o tentò in alcun modo
di esercitare una egemonia sul nostro lavoro: questo voglio ricordare con
gratitudine. Sapeva
a sua volta apprendere dai giovani, imparare da loro: in particolare lo ricordo
impegnato a interrogarsi, insieme a qualcuno di noi, sulla filosofia del
"viaggio" del movimento hippie, sul buddismo, e quelle nuove forme di
cultura tese a ricomporre la globalità dell'individuo; aveva un'attitudine
orientale per la meditazione e quando il Living
Theatre giunse a Torino, fu lui a farmelo conoscere, portandomi nei camerini
per presentarmi due sue vecchie conoscenze, Julian Beck e Judith Malina. Nonostante
un'apparente caoticità, o impulsività, era guidato da un lucido progetto
interiore. Alla vigilia della mia partenza per gli USA, un po' sgomenta dei
compiti affidatimi, dissi a Sandro, "non sarebbe meglio che andassi tu di
persona?". Si schermì: "No, io ci sono già stato, adesso partite
voi". Fu
sicuramente un maestro per noi, ma diverso dagli altri maestri. Non era di
quelli che costituiscono un riferimento ideale o morale "lontano",
fermi nella loro saggezza mentre i più giovani si espongono nel mondo. Egli era
con i giovani nel mondo perché c'era qualcosa di molto giovane, di
adolescenziale, anche in lui. Sembrava sopravvivere in Sandro il partigiano
diciottenne di Giustizia e Libertà, fermo a quell'età e a quell'esperienza.
Era come se la sostanza umana delle relazioni che poterono stabilirsi nella
resistenza, e poi nell'edificazione di Agape, fosse rimasta l'unico termine di
confronto di quelle che per lui potevano essere relazioni umane accettabili. Per
noi del '68, che guardavamo alla resistenza, fu una lezione di coerenza
esemplare. Per il tempo che l'ho conosciuto l'ho sempre visto proteso a
riprodurre, nel piccolo, una società di compagni solidali, uniti in un impegno
che li trascendesse: il collettivo per CR, la comune in cui viveva in via Plana,
a Torino, insieme a studenti e operai, e poi l'osteria di Stura, che gestì in
un periodo (quello delle Brigate Rosse) in cui tanti di noi si erano ritirati
sgomenti (io per esempio passai quattro anni a cucire). La sua capacità di
restare adolescente pur accettando i compiti del' età adulta, comprese le
scadenze della propria vecchiaia e della propria morte, costituisce per me una
fonte importante di riflessione: la coerenza, l'intolleranza per l'ingiustizia,
la capacità di provare sdegno, l'insofferenza per i compromessi, l'irriverenza,
possono preservare la nostra età adulta dall'accomodamento e dalla rinuncia. Fu
forse questo il "disadattamento" di Sandro: l'aver avuto alle spalle
esperienze umane e culturali (anche quella americana) che gli consentivano di
vedere troppo in avanti coi tempi, il che gli provocava tremende arrabbiature
quando gli altri sembravano non capirlo. L'ho
molto amato. Come tanti della mia generazione avevo vissuto un drammatico
scontro con i miei genitori, e in particolare il distacco da un padre ex
partigiano che non mostrava di voler capire il mio impegno e le mie ragioni:
forse anche questo ha pesato nel mio innamoramento. Sono stata la sua compagna
per quattro anni, ma ancora mi suona strano dirlo in questo modo, perché tra
noi non ce lo siamo mai detto in questo modo. Non era nelle corde di Sandro
essere "coniugale"; le poche volte che gliene chiesi ragione (era la
politica il terreno dei nostri discorsi, e in rare occasioni la trascendenza e
il destino delle scelte individuali), mi rivolse uno sguardo come smarrito. Gli
si leggeva dentro una ferita antica (la morte della madre quando aveva tre anni?
Il lungo disinteressamento da parte del padre?; "Sono nato solo", mi
confidò a mezza voce), per la quale cercava soccorso per altre vie che non il
rapporto tra l'uomo e la donna. Per lui l'amore o era spirito, l'unione di cui
non si parla perché c'è (mi disse una volta, e fu una per sempre: "grazie
perché ci sei"), o era gioco. Soltanto oggi però capisco come la
giovinezza dell'altro possa rappresentare per la persona di mezza età un
pericolo ben maggiore dell'esposizione del giovane all'età matura. In questo
anche si mostrò saggio: in qualche modo fu da parte sua una scelta quella di
far sì che i miei vent'anni diventassero il terreno del suo investimento
paterno piuttosto che quello di un'unione improbabile. Fu lui
a mettermi nelle mani il materiale del movimento delle donne in America e a
suggerirmi - sapendo forse di trovare una forte propensione - di organizzare nel
'69 un collettivo femminista a Torino, che si chiamò il "collettivo delle
compagne": e questo forse a conferma che l'iniziativa creativa nasce
dall'incontro - anche dei due sessi - e non dalla separazione. E lui ha sempre
creduto nell'incontro. Power
to the people, Sandro! |