l’altra riva  - rubrica a cura del gruppo Raphael  

- su L’ECO DEL CHISONE 97-98

 

Si dice comunemente che il dolore unisce le persone.

Questo detto popolare non è sempre vero. Può certo accadere che il dolore unisca, che l’esperienza della sofferenza crei coesione tra le persone. Ma può anche non essere così.

Qualche tempo fa mi è capitato di incontrare due coniugi che avevano vissuto  l’esperienza della morte del proprio figlio. Quello che più mi ha colpito di questa coppia così duramente provata era la loro totale incapacità a vivere il dolore insieme, cioè la loro incapacità a condividere questo momento terribile della loro vita di coppia.

Sembrava che non solo il dolore non li unisse, ma addirittura che li dividesse profondamente.

Ognuno dei due viveva il suo dolore come qualcosa di esclusivo, quasi con gelosia, come se l’altro volesse rubarglielo. Per questo ognuno teneva ben nascosto il suo dolore e, invece di farne parte, lo teneva racchiuso dentro di sé morbosamente.

Addirittura sembrava, a sentir loro, che soltanto il proprio dolore fosse quello giusto Invitata ad esprimere, la moglie accusava il marito di non soffrire abbastanza per la perdita del figlio. E’ arrivata a dirgli con rabbia, quasi con cinismo “A te non importa che nostro figlio sia morto. Per te è tutto come prima!”. Sembrava quasi che solo lei vivesse il dolore, che solo lei soffrisse e che solo il suo modo di soffrire fosse giusto. Il marito cercava di difendersi dicendole che anche lui soffriva. “Io non piango come te, non mi chiudo in casa ma soffro a modo mio!”. Le affermazioni del marito, invece di calmarla, facevano andare in bestia la moglie.

La moglie, forse per il particolare rapporto che lega una madre al figlio che ha portato dentro di sé, sembrava pretendere l’”esclusiva” del dolore, svalutando il dolore degli altri.

Quei due coniugi non sono certo diventati di colpo cinici e cattivi: sono soltanto due persone in difficoltà. Spesso il lutto causa situazioni come quella descritta.

Per far sì che il dolore sia motivo di unione occorre superare il proprio egocentrismo e comprendere che chi ci sta vicino può vivere il dolore in modo diverso dal nostro.

Accettato questo ci sarà più facile condividere, esprimere. Così il dolore può diventare strumento che ci lega.

Negli Stati Uniti il sig. John, operato di cancro, viene a sapere la sua diagnosi dal chirurgo al risveglio in sala postoperatoria o, se è più fortunato, qualche giorno dopo per telefono. Il tutto con effetti facilmente immaginabili. Questo accade perché la tendenza dei paesi anglosassoni è  di informare della diagnosi tutti e subito, a volte senza badare alle conseguenze derivanti dal modo in cui la diagnosi stessa è stata rivelata.

Ma se il sig. John, invece di abitare a Miami si chiamasse Giovanni e abitasse magari a Macello o in Brianza, che cosa gli succederebbe?

Con molta probabilità sua moglie si rivolgerebbe ai medici e, implorandoli, si farebbe promettere che non riveleranno mai al marito qual è la natura del male contro cui sta lottando. Così tutti racconterebbero al nostro paziente che tutto va bene, che non c’è da preoccuparsi ecc.

La stessa moglie del nostro sig. Giovanni inviterebbe a trovare il marito anche il ministro del culto, naturalmente proibendogli tassativamente di parlare di “cose brutte”, perché “lui è tanto sensibile”.

Così dal giorno dell’operazione in quella casa nessuno potrebbe più parlare di tumore, di malattia e tanto meno di morte.

Povero signor John o Giovanni che sia! In una parte del mondo violentato con una notizia troppo cruda buttatagli addosso come un macigno in onore alla verità, dall’altro lato del mondo defraudato e imbrogliato per amore. Basta cambiare parallelo per ritrovarsi di fronte all’opposta reazione: l’eccesso di comunicazione o la congiura del silenzio.

Ma è possibile che non si possa mettere una volta tanto al centro delle nostre scelte la persona che soffre? E’ così difficile capire che si possono mettere insieme il diritto del malato a sapere ciò che lo riguarda e la sua sensibilità, il suo cuore e le sue paure?

Il problema non sarà allora dire o non dire la verità al paziente, ma come dire la verità, trovando cioè un modo che rispetti la sua sensibilità e i suoi diritti insieme.

 

 

Da uno studio riportato da Biondi e altri nel  libro “La mente e il cancro”(Ed. Il pensiero scientifico, 1995) risulta che ancora oggi in Italia l’82% dei pazienti malati di tumore maligno non è a conoscenza della diagnosi.

A ben pensarci questo dato è sconvolgente. Se questo è vero significa che otto  su dieci malati di cancro in Italia muoiono senza che nessuno gli abbia detto contro che cosa stanno lottando o per che cosa stanno morendo.

Molto spesso ciò dipende dai parenti stessi che, in buona fede e credendo di fare la cosa più giusta per il loro caro, chiedono al medico di non rivelare assolutamente la diagnosi.

Perché? Perché una persona, capace da sempre di sapere e di decidere tutto quello che lo riguarda viene derubato di queste facoltà?

E’ incredibile quanti pregiudizi si nascondano in genere nella testa della gente quando si tratta di dire la verità al malato, dalle cose più assurde (“Potrebbe buttarsi dalla finestra”) ad altre ragioni apparentemente più fondate (“Non reagirebbe più perché si uccide in lui la speranza”) fino a ragioni decisamente sospette (“Il paziente non è in grado di capire e di decidere”).

Certo una comunicazione brutale può stroncare una persona, certo una verità che non lascia spiragli può uccidere la speranza, certo il linguaggio medico a volte è così difficile che il paziente fatica addirittura a capire, altro che a decidere!

Ma è proprio necessario essere brutali, freddi o nascondersi dietro ai paroloni?

Viene il dubbio che la verità sia scomoda soprattutto per chi la dice perché crea un sacco di grane: decidere di dire la verità significa riflettere come dirla,  gestire gli stati d’animo del paziente. Allora è meglio barare, così tutti siamo tranquilli.

Sentirsi dire di essere malati di una malattia potenzialmente mortale non fa saltare di gioia nessuno. Le cose però vanno viste alla lunga, in prospettiva.

La verità non è un macigno che si getta in un pozzo d’acqua, ma l’inizio di un cammino da percorrere insieme.

 

 

Nello stesso ospedale, nella stessa stanza, ci sono due uomini entrambi con la stessa malattia: cancro al polmone.                                                                                           Ad uno è stato raccontato che non è nulla di serio, solo una  brutta bronchite che guarirà in poco tempo. All’altro, in debito modo, lasciando spazio a molta speranza e alla possibilità di cure efficaci, è stata detta la verità.

Che cosa succederà ai due? Apparentemente nulla di diverso. Ma soltanto apparentemente. Vediamo.

Il primo, quello della “brutta bronchite”, si stupirà molto del suo progressivo peggioramento ( le bronchiti di solito guariscono facilmente). Si stupirà ancora di più quando dovrà fare quelle flebo(chemio) che nessuno chiamerà mai col loro nome. Altro che decidere per sé le cure migliori! A casa tutti saranno sorridenti, forzatamente sorridenti. Nessuno  parlerà più di malattia davanti a lui, non si potrà più fare un discorso vero, nessuno potrà più esprimere uno stato d’animo vero. Neppure lui. Vorrebbe esporre i suoi dubbi, la preoccupazione per sentirsi peggiorare, ma sarà inutile provarci perché tutti gli tapperanno la bocca. “Ma cosa dici, cosa vai a pensare!”. Intanto magari la malattia avanza e lui si aggrava, il tempo prezioso passa ma, entrati nell’imbroglio, non si esce più. Bisogna recitare fino alla fine. In quella casa nulla è più vero, ognuno piange e soffre per conto suo, anche il paziente.

E l’altro? Dovrà faticare molto per sistemare la verità dentro di lui, ma ci sarà qualcuno sempre disposto a dargli una mano. Potrà decidere con i parenti e i medici le cure migliori per sé, potrà essere arrabbiato e triste e ci sarà qualcuno che gli darà ascolto, senza paura delle sue reazioni.. In quella famiglia si potranno fare discorsi veri, pianti veri, gioire veramente, addirittura scambiarsi veri segni di affetto. Magari anche lui si aggraverà, ma in ogni momento potrà partecipare ciò che vive traendone vero sostegno.

La differenza tra i due modi di vivere la stessa malattia è abissale. Il tempo passa per entrambi, la vita scorre per entrambi, ma con quale qualità?

 

Cosa direste se un bel giorno, andando a comprare il pane, fosse il panettiere a decidere quale tipo di pane e quanto pane volete? O se oggi, fermandovi a mettere benzina, fosse il benzinaio a scegliere per voi la quantità di carburante da mettere nella vostra auto?

Probabilmente direste “Che cosa le salta in mente di decidere al posto mio. Non sono mica stupido! So decidere che cosa mi serve .”

La risposta è molto pertinente, perché ognuno di noi sa che cosa vuole e sa che cosa è meglio per se stesso.

Se questo è vero per tutte le situazioni della vita, perché non dovrebbe essere vero anche quando la persona vive la malattia?

Purtroppo invece molte persone si comportano nei confronti dei malati come se questi fossero stupidi per davvero, offendendo la loro dignità. La più grande risorsa di un essere umano è la libertà, cioè la capacità di decidere ciò che lo riguarda.

La malattia non toglie mai alla persona i suoi diritti e rarissimamente le sue capacità. Una persona malata non diventa stupida. Una persona malata non diventa per il fatto di essere malata meno capace di scegliere, di saper decidere ciò che la riguarda.

Una persona malata è soltanto più spaventata e dunque più smarrita e fragile del solito. Questo però non è un buon motivo per considerarla così fragile ed incapace da essere noi a decidere al posto suo ciò che la riguarda, specialmente la sua salute.

Occorrerà molta delicatezza e rispetto nel proporre, ma la persona va messa anche nella malattia in condizione di scegliere.

Dunque il dare informazioni al paziente sulla sua malattia, il metterlo in grado di decidere le cure migliori per se stesso, non è un favore che gli si fa.

Per il paziente il sapere ciò che lo riguarda è un diritto e diventa un dovere per gli altri informarlo.

 

Durante una visita domiciliare ad una anziana signora malata di tumore, la paziente chiama uno di noi da parte e dice “Mi raccomando. Non fate sapere a mia figlia che ho capito tutto del male che mi ha colpita. Mia figlia crede che non sappia e io faccio finta di credere a quello che mi dice. Lei è molto sensibile e potrebbe soffrire per me.”

Questo fatto ha veramente del paradossale. La figlia tiene nascosto alla madre la sua vera malattia. La madre capisce tutto, ma, per non turbare la figlia fa finta, recita       anche lei per non farla star male. Incredibile!

Questo è soltanto uno dei tanti casi di cui siamo a conoscenza in cui il paziente tace per non sconvolgere quel castello di bugie messo in piedi per “proteggerlo”.

Il paziente infatti sa, sa sempre, anche quando fa finta di non sapere, addirittura anche quando dice di non voler sapere. Anche in questo caso, il fatto di non voler sapere significa che sa ma ha paura di ricevere delle conferme a ciò che dubita.

Nella nostra società televisione, giornali, riviste parlano in continuazione del cancro. La nostra è una cultura imbevuta di questo male del secolo.

La prima cosa che una persona pensa quando sta male, quando va a fare un esame è “Non avrò mica un tumore!”. Addirittura il tumore, più dell’AIDS è oggetto di fobie varie tra la gente.

Come si può pensare che una persona malata di tumore non sappia, o almeno non sospetti di avere un tumore?

Tutti oggi sanno che cosa significa la parola oncologia. Com’è possibile che una persona, portata a fare la chemioterapia nel reparto di oncologia, non capisca che cosa sta facendo?

E’ il caso di pensare che, pur sapendo, il paziente, un po’ per mentire a se stesso e molto di più perché non può parlarne coi parenti che lo ingannano, taccia e faccia finta.

 

 

Immaginiamo di essere su un treno e di essere saliti su quel treno senza che lo volessimo. Non ci piace la destinazione, ma purtroppo da quel treno non possiamo scendere, anche volendolo.

Immaginiamo anche che il nostro miglior amico, per ammorbidirci la cosa, ci ubriachi di birra o ci convinca con molto impegno che non c’è da preoccuparsi perché il treno è fermo e non va da nessuna parte, o ci faccia credere, mentendo, che il treno ha improvvisamente cambiato meta.

Questo nostro amico, con tutte le buone intenzioni, non ci farebbe un grande servizio, anzi, ci danneggerebbe notevolmente.

Infatti le bugie che ci racconta o la sbornia che ci procura non impediscono certamente che il treno faccia per intero la sua corsa. Nonostante le parole dell’amico e la nostra coscienza alterata, il treno arriverebbe comunque a destinazione, anche se noi non ne siamo consapevoli, essendo imbottiti di frottole ed alcool.

Il nostro amico, inoltre, ingannandoci, ci priverebbe dell’unica possibilità che abbiamo in questa situazione: presa coscienza di essere su quel maledetto treno, essere noi a decidere che cosa fare, come stare sul treno.

Magari sul treno, sapendo dove andiamo, potremmo disperarci, arrabbiarci o anche buttarci dal finestrino. Ma siamo noi a deciderlo. Oppure potremmo vedere che sul treno ci sono altri passeggeri e magari cominciare a conversare con qualcuno di loro, raccontando i nostri sentimenti.

Qualunque cosa decidiamo di fare su quel treno è una cosa buona, purché siamo noi in piena coscienza a decidere. Per decidere in piena coscienza occorre sapere di essere sul treno, sapere dove il treno ci porta e sapere dove il treno si trova in quel momento.

L’immagine del treno su cui non si vuole salire e che va là dove noi non vorremmo andare è un po’ la metafora della malattia potenzialmente mortale.

Nessuno credo goda di essere su quel “treno”, ma ingannarlo o ubriacarlo è davvero togliergli l’unica possibilità che gli resta: decidere come “viaggiare”.

 

 

 

Ciò che rende la persona pienamente persona è la consapevolezza, cioè la possibilità di essere pienamente ed in ogni momento cosciente di ciò che sta vivendo.

E’ la consapevolezza di ciò che sta vivendo che rende la persona protagonista della propria esistenza.

Il contrario della consapevolezza è la alienazione. Alienazione significa “essere fuori da se stesso”, stordirsi, narcotizzarsi.

La consapevolezza di quello che si vive non è sempre piacevole: proprio per questo le persone a volte si alienano in vari modi, per esempio non volendo vedere, oppure stordendosi con alcool o droghe.

Infatti ci sono momenti della propria vita in cui essere consapevoli di ciò che si vive fa molto male. Ma la consapevolezza è l’unico strumento che abbiamo a disposizione per essere veramente vivi e vivere pienamente.

Il cammino della consapevolezza è un cammino scomodo: inizia di solito col rifiuto della realtà, troppo brutta da vedere. Ci saranno momenti di disperazione, di paura folle. Ma se la persona ha il coraggio di andare avanti, magari con l’aiuto di qualcuno a cui poter esprimere via via i propri stati d’animo, il traguardo sarà l’accettazione e, insieme ad essa, la possibilità di operare delle scelte.

Certamente uno dei momenti in cui la consapevolezza è particolarmente scomoda è quando una persona è colpita dalla malattia potenzialmente mortale. Soprattutto in questo caso sarebbe molto comodo stordirsi perché, tra tutte le paure, certamente la paura della morte è la peggiore. Ma anche in questo caso la via che conduce a vivere in modo umano la malattia, specie se grave, è ancora la consapevolezza.                Quando si inganna un paziente si blocca in lui il cammino della consapevolezza, rendendolo così meno “umano” proprio perché meno cosciente e congelandolo nella disperazione e nella non comunicazione.

Gli si impedisce così di fare un cammino che, anche se doloroso, lo porterà a dare un senso al suo dolore e concludere serenamente, se succederà, la sua vita.

Se ci facciamo tanti problemi a parlare di malattia potenzialmente mortale con un adulto, figuriamoci con un ragazzino!

Voglio sottoporre alla vostra attenzione alcune dichiarazioni di ragazzi ricoverati al Regina Margherita di Torino a proposito del dire la verità al paziente.( Confronta “Invernizzi e altri, La famiglia del malato neoplastico, Piccin, Padova, 1992”)

Angelo, malato di linfoma, 14 anni, dice ad una riunione “I medici parlano solo con i genitori, sempre in un cantuccio con loro, e con te niente, non sai mai niente. Se mai, se lo sai, è perché te l’hanno detto i tuoi genitori, mai i medici direttamente. Loro non ti parlano mai!”.

Sara, 13 anni, in diagnosi dice: “E’ meglio sapere, anche se uno ha una brutta malattia, un tumore, è meglio che lo sappia perché, da un lato può comportarsi meglio, nel senso che può evitare di fare delle cose che potrebbero fargli male, dall’altro uno potrebbe pensare che se gli dicono una bugia è perché pensano che non possa affrontare le cose,  che non sia in grado di accettarle, che sia proprio immaturo!” Sara si ferma un attimo poi continua “Io vedo mio zio: lui sa che ha un tumore e preferisce saperlo. Certo uno poi non può mica essere sempre allegro, però non si sente imbrogliato.”

Dice Alessandro di 12 anni, malato di linfoma: “Io mi chiedo: se neppure i medici sanno cos’ho, come fanno a curarmi? Allora cosa ci vengo a fare qui! In tutti questi anni mai nessuno mi ha detto cos’ho. I dottori parlano sempre di nascosto nei corridoi coi miei genitori. Chissà cos’hanno da dirsi se io non devo mai sentire. Adesso non lo voglio più sapere che cos’ho. Se nessuno mai mi ha detto niente, in tutti questi anni, io non lo voglio sapere, cosa me ne importa!”

Queste dichiarazioni, piene di rabbia da un lato e dall’altra cariche di inaspettato buon senso in ragazzi di questa età, dovrebbero farci molto meditare sui nostri pregiudizi e sulle conseguenze delle nostre comunicazioni mancate.

 

 

 

La questione non è se dire o non dire la verità al paziente, ma come dire la verità in modo umano ed efficace.                                                                                                 La verità, come già abbiamo ricordato, non è un macigno che si scarica sulle spalle di qualcuno. La verità va detta col fine non di schiacciare, ma di far crescere, con molto rispetto per chi ci sta davanti.                                                                                          A questo proposito varrebbe la pena di riflettere su come viene comunicata la diagnosi di sieropositività al paziente: una busta chiusa con quella terribile notizia dentro ed il paziente solo alle prese col suo responso di malattia e di morte. Da un lato tanta delicatezza verso i malati di tumore protetti all’inverosimile, fatti passare come fragili ed incapaci e dall’altra il sieropositivo da bastonare, da caricare senza ritegno e pudore. Verrebbe da pensare che, dietro alla comunicazione cosi brutale al sieropositivo, ci sia una voglia di punirlo per i suoi comportamenti.

Tutto questo, oltre che essere ingiusto moralmente, è profondamente disumano.

Ogni paziente è un individuo con la sua situazione clinica, la sua storia, le sue esperienze. Tutto questo va considerato e rispettato.

Dunque non esiste una maniera di comunicare valida sempre, per tutti e in tutte le situazioni. La comunicazione della verità va adattata alla persona che abbiamo davanti, sgombrando il campo dai nostri pregiudizi.

Per parlare con sincerità della malattia con un paziente occorre chiedersi chi abbiamo davanti.

Certo parlare di tumore ad un bambino cambia non è la stessa cosa che parlarne con una persona adulta. Allo stesso modo parlarne con una persona che ha un buon sostegno nella famiglia non è la stessa cosa che parlarne con una persona anziana che vive da sola.

La modalità si trova sempre se si parte dalla persona che ci sta di fronte.

 

 

Volendo comunicare al paziente la vera natura della sua malattia occorre già dall’inizio, non dire nulla che non sia vero.

Se si comincia a mentire si dovrà continuare a farlo: la menzogna porta ad altre menzogne.

Le informazioni vanno date in piccole quantità. Si può partire, per esempio, dall’informare che l’operazione chirurgica non ha avuto l’esito che si sperava e che occorre fare ancora degli accertamenti. In questo modo si dà al paziente il tempo per elaborare la notizia ed adeguarsi alla realtà.

Molti si spaventano delle domande che può fare il paziente e tentano di soffocarle. Al contrario le domande del paziente sono molto importanti perché esprimono i suoi pensieri. A volte il paziente non si aspetta neppure una risposta: sta semplicemente esprimendo una paura, un dubbio e va soltanto ascoltato.

E’ molto importante anche rispettare i silenzi del paziente. Il silenzio è il momento in cui il paziente elabora dentro di sé la notizia e magari si prepara a fare un ulteriore passo sulla strada della ricerca della verità.

Nella comunicazione della diagnosi bisogna fare molta attenzione a non distruggere con una sola frase tutte le speranze .

Come non è giusto creare false speranze, così non è giusto distruggere tutte le speranze.

L’esperienza mostra che, anche nei casi più difficili, non si può essere certi che le cose non possano migliorare. E’ dunque corretto lasciare sempre aperta la speranza.                                                                                                                          E’ importante che il paziente sappia che ci sono per lui dei farmaci che gli consentono di affrontare efficacemente il dolore e migliorare notevolmente la qualità della vita.

Tutto l’accento va dunque posto già dall’inizio sul presente. Il paziente deve sapere che, anche se non si può far tutto (guarire), molto può essere fatto per aiutarlo a star bene e condurre una vita il più possibile normale.

 

“Ho un dolore qui”, dice  la gente toccandosi un piede o altre parti del corpo.

Quando si parla di dolore, di solito le persone pensano al dolore fisico, al male del corpo.

C’è però anche un dolore che non è soltanto fisico, ma che è molto più profondo.

Pensiamo ad esempio al dolore per la perdita di una persona cara o al dolore per il crollo di un progetto a cui tenevamo molto e su cui molto abbiamo puntato.

Questo dolore profondo non può essere sedato con dei farmaci, perché è un dolore “dentro”, un dolore dell’anima che coinvolge anche il corpo.

In simili situazioni potremmo parlare giustamente di dolore totale, cioè di dolore che tocca la nostra persona nella sua globalità.

 Una persona che viene a contatto con la diagnosi di malattia potenzialmente mortale è come se facesse di colpo un tuffo nel dolore totale, cioè in un dolore che la prende tutta, corpo e spirito.

Rabbia contro tutto e contro tutti:  contro se stessa, contro Dio, contro le istituzioni. Paura, molta paura: dell’ignoto, di perdere il proprio corpo, di perdere la propria identità, del dolore fisico, di perdere l’autocontrollo e di essere in balia degli altri, paura di morire. Tristezza ed angoscia, amarezza, delusione. Questi sono alcuni degli ingredienti del dolore totale che caratterizzano la malattia potenzialmente mortale.

Se il dolore è totale anche l’aiuto nei confronti della persona dovrà essere totale, cioè dovrà coinvolgere l’intera persona, non soltanto la sua parte fisica.

Il “dentro” non si può curare con prodotti chimici. Le medicine del “dentro” non sono in vendita. L’ascolto, il contatto affettivo, la speranza sono medicine preziose al punto che, se mancano, neppure il corpo guarisce.

 

La malattia potenzialmente mortale non colpisce soltanto la persona che si ammala, ma l’intera sua famiglia.

A buon diritto potremmo dire che tutta la famiglia “si ammala” e anche la famiglia magari “guarisce” o magari “muore”. Tutta la famiglia, dal momento della diagnosi, inizia insieme al paziente un percorso di dolore che la porterà a modificare i suoi equilibri più o meno collaudati.

Anche la famiglia entra nel dolore totale, cioè in quel dolore che tocca tutta la persona.

Non è possibile entrare nel tunnel del dolore credendo di esserne spettatori. Anche se la malattia fisica tocca in particolare uno dei membri, tutti i membri della famiglia ne sono coinvolti, consapevolmente o senza saperlo.

Al termine del percorso, sia che esso termini con la guarigione sia che termini con la morte, nessuno è più esattamente come prima.

Negazione, rabbia contro tutto e contro tutti, paura, frustrazione, angoscia, sono comuni a tutti i membri della famiglia, anche se ognuno vive questi stati d’animo a modo suo e in tempi suoi.

La famiglia, in occasione della malattia potenzialmente mortale di uno dei suoi membri, è messa a dura prova. Spesso il dolore provato, invece di creare unione, finisce per dividere e far scoppiare magari vecchi focolai  non spenti tra le persone.

Occorre una buona dose di accettazione dell’altro e della sua diversità per affrontare insieme la malattia. Occorre saper comunicare i propri sentimenti, partecipare le proprie angosce e, spesso, le persone non sanno fare questo né prima né durante la malattia.

 Capita così che ognuno si chiude nel suo silenzio e nella sua disperazione e invece di essere di aiuto al paziente si finisce di essere di ostacolo al suo cammino.

Anche la famiglia ha bisogno di aiuto, non soltanto il paziente.

La fase terminale, cioè l’ultimo periodo della vita di una persona colpita da malattia mortale, è vissuta in genere come “terra di nessuno”, cioè come un periodo che non è né di vita né di morte, né di qua né di là, dove il tempo e lo spazio sembrano indefiniti, dove i rapporti tra le persone sembrano congelati.

Tutti e tutto sembrano in attesa. Proiettati in un futuro più o meno imminente che spaventa e che addolora o che solleva, il presente sembra non contare affatto.

Contrariamente a quanto di solito si pensa, quest’ultimo periodo è un periodo di vita, facente parte a pieno titolo della vita, non solo, ma si potrebbe pensare giustamente che sia uno dei periodi più intensi della vita umana. L’importanza di tale periodo è determinata dal fatto che proprio in questo momento della vita vengono vissute le realtà forse più vere e più importanti.

Ciò significa che il paziente che vive la fase terminale della sua vita non si trova in un periodo di parcheggio, di quasi morte o di vita a metà. Questo paziente è pienamente vivo, vivo come non mai, con una serie di bisogni veri, forse i più veri della vita, che vanno presi in seria considerazione e soddisfatti.

Una persona non è solo persona quando decide dove andare in ferie o dove comprarsi il cappotto. E’ altrettanto da prendere in considerazione quando si chiede se fare o no una chemioterapia, quando ha bisogno che qualcuno lo ascolti, quando si chiede che valore dare alla sua sofferenza, dove e con chi morire, che cosa vuole lasciare di sé a chi resta.

Anche questi bisogni devono trovare una risposta.

Avete mai visto che cosa fanno comunemente le persone quando si trovano di fronte a qualcuno che esprime i suoi dubbi, le sue paure, i suoi stati d’animo dolorosi?          “Non dire così”, “Non fare così”, “Vedrai che…”.                                                  Sembra che si debbano arginare gli stati d’animo dell’altro, come se l’altro, esprimendo la sua paura o il suo dolore, sia travolto dagli stati d’animo che sta esprimendo e con lui trascini nel dolore anche chi gli sta di fronte.

Questo atteggiamento dell’arginare non è utile alla persona che in quel momento ha bisogno di esprimere.

Dovremmo tutti imparare, per essere veramente di aiuto a chi soffre, a lasciare che l’altro esprima i suoi stati d’animo. Non solo, ma dovremmo invitare l’altro ad esprimere la sua paura e la sua angoscia.

Infatti esprimendo all’esterno il proprio dolore e condividendolo con noi, molto spesso la persona stessa ridimensiona alcune cose e capisce l’importanza di certe altre cose e si prepara magari a prendere delle decisioni che riguardano il suo futuro immediato. 

Occorre dunque invitare chi soffre a dare diritto di cittadinanza ai suoi pensieri e alle sue emozioni.                                                                                                               Perché questo succeda non bisogna affatto bloccarne l’espressione, non bisogna spaventarsi del fiume di dolore che esce dall’altro. Occorre imparare ad essere  dei “contenitori”, proprio come il bicchiere che contiene l’acqua.

Una persona colpita da malattia potenzialmente mortale vive molte paure, è piena di angoscia, è carica di tristezza e forse di disperazione. Darle il diritto di esprimere tutto ciò, invitarla a manifestare i suoi pensieri, incoraggiarla a tirare fuori anche i sentimenti più dolorosi, è per lei di grande aiuto. Bloccarla, zittirla, costringerla a “non dire così”, a “non pensare così” significa condannarla alla solitudine, alla disperazione e alla paralisi.

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Il contatto fisico, nelle più svariate forme, è indispensabile per l’essere umano in ogni momento della sua vita, dalla nascita alla morte.

In ogni momento della vita le persone hanno bisogno di essere toccate, accarezzate, coccolate, baciate, strette tra le braccia.

Il contatto fisico, nella sua varietà di forme, pone la persona al centro dell’attenzione e la fa sentire importante ed unica, trasmette calore fisico e psichico, apre la pelle e il cuore e toglie la persona dall’isolamento, fa sentire la persona di ogni età parte del mondo.

Una persona mai accarezzata vive isolata, chiusa in se stessa, triste, rigida, dura con se stessa e con gli altri.

Il bisogno di contatto fisico non cessa neppure durante il periodo della malattia, anzi, è proprio nel periodo della malattia che gli esseri umani hanno più bisogno di essere toccate, non solo per essere lavate o per ricevere prestazioni tecniche varie.

Le persone malate hanno particolarmente bisogno di contatto fisico, anche quando non sono capaci di manifestarne il bisogno ed il desiderio.

Molto spesso la persona malata si sente sgradevole e sgradita, isolata dal mondo, dimenticata, spenta fisicamente, indurita dal dolore fisico.

E’ proprio il contatto fisico che aiuta la persona malata a sentirsi parte, a sentire  il calore umano, a vivere il proprio corpo non solo come oggetto di dolore, a sperimentare di essere amata ed importante.

Per una persona malata il contatto fisico acquista molto spesso un valore terapeutico. Esso diventa importante tanto quanto le medicine o il cibo e forse anche di più.

Man mano che la malattia si aggrava, la persona malata ha sempre meno bisogno di sentire parole e sempre più bisogno di qualcuno che la accarezzi, le tenga la mano, la baci e le faccia sentire calore e vicinanza.

 

In genere, quando siamo in difficoltà, ce la caviamo dicendoci che “domani andrà meglio”.

Spesso il futuro diventa nei momenti difficile fonte di speranza e via di uscita dalle difficoltà del presente.

Purtroppo la tipicità della malattia grave è data dal fatto che il futuro è molto incerto e, man mano che la malattia avanza, sempre più limitato e sempre meno fonte di coraggio per il paziente. Invece di essere fonte di rassicurazione, il futuro diventa oggetto di angoscia e di grande preoccupazione.

Non è certo facile trovare un senso alla propria vita senza puntare sul futuro, specialmente quando il presente è tutt’altro che piacevole.

Proprio perché la persona gravemente malata non può più puntare sul futuro, occorre che sia aiutata a puntare tutte le sue risorse sul presente.

Occorre che il paziente impari a vivere il qui-ora, a godersi questa giornata, a vivere questo momento di benessere, ad apprezzare questa visita.

Occorre orientare il paziente a puntare tutte le sue energie su questo momento che vive per poterlo vivere nel miglior modo possibile.

“Di che cosa hai bisogno adesso?”, “Come possiamo vivere bene questa giornata ?”,

“ Che cosa hai voglia di fare oggi?”

Quando una persona sa uscire dalla trappola del futuro ed accetta di vivere il presente, si schiudono ai suoi occhi delle possibilità inimmaginabili, si scopre il valore di cose di cui comunemente non si coglie il valore.                                                     E’ facile per noi che stiamo bene indicare falsamente nel futuro la soluzione dei problemi, ma il paziente, specialmente quando si sta aggravando, non ha bisogno di illusioni, tanto meno ha bisogno che siamo noi ad aiutarlo a crearsele. Ha bisogno di usare il tempo che gli resta in modo pieno ed efficace.

Avete presente una collana? Una collana è fatta di tante palline tenute insieme da un filo. Senza il filo non esiste la collana, ma soltanto un mucchio di palline disgregate. E’ il filo che da “senso” alla collana.                                                                                    La vita delle persone assomiglia alla collana. E’ fatta di tante palline, cioè di tante azioni, ma perché sia vita occorre il filo che unisca tutto ciò che la persona vive.       Il filo è il senso che ognuno di noi da alla sua vita.                                                                  La ricerca del filo, cioè del senso del vivere, coinvolge tutta la vita umana.

Tutti, alzandoci al mattino, dobbiamo trovare il filo alla giornata che si apre.                 Il triste è quando non si riesce a trovare il senso. Smarrire il senso butta la persona nella disperazione totale. Il senso comunque lo si può sempre ritrovare, magari con fatica.

Se questa ricerca del senso è una necessità continua per l’essere umano, lo è particolarmente in certe situazioni e, tra tutte, specialmente di fronte ad una prospettiva di vita limitata come quella di un paziente che conosce la gravità della sua malattia.

In una simile situazione sembra addirittura impossibile trovare un senso. Infatti la persona non può non passare un periodo di disperazione e di angoscia.

La persona malata ha diritto di disperarsi. Sbaglia chi, a tutti i costi, vuole imporre dall’esterno il suo senso. Sarebbe quasi una violenza nei confronti dell'altro. Solo la persona interessata può trovare un senso alla sua situazione.

Ma come può la persona malata trovare un senso alla sua situazione. Come è possibile aiutare la persona malata a trovare un senso?

Per trovare un senso alla malattia la persona deve ricorrere a ciò che per lei è veramente importante nella sua vita, a ciò che ha rappresentato il filo di  tutta la sua vita, ai valori che da sempre hanno contato per lei, a ciò per cui ha lottato e faticato.

 

 

Dentro ognuno di noi, anche se non ce lo siamo mai detto e tanto meno lo abbiamo mai scritto da qualche parte, esiste un elenco, una specie di graduatoria in cui per ordine sono sistemate le cose che contano di più per noi. E’ come se nella nostra testa ci fosse una scala con certe cose al primo posto, altre al secondo, altre al fondo.                        Ognuno di noi dà nella sua vita la priorità a certe cose, a certi valori, mentre per lui altre cose sono meno importanti o addirittura non contano nulla.

Ognuno di noi ha quindi i suoi valori e i suoi valori sono messi in un certo ordine di importanza.                                                                                                                         E’ impossibile fare un elenco delle cose importanti e delle risorse che possono dirigere la vita delle persone.                                                                                           Per qualcuno ciò che conta di più è la famiglia, gli affetti che lo legano alle persone che ama, per altri è il lavoro il valore che dà senso alla vita, per altri tutto si basa su una fede, altri vivono per cercare la verità.                                                                                                                        Proprio in base ai suoi valori, la persona può dare un senso alla sua vita e, dunque, anche alla sua malattia e alla sua morte.

Aiutando una persona con una prospettiva di vita limitata ci dovremmo sempre chiedere “ Qual è per questa persona il suo valore principale? Su che cosa ha appoggiato la sua vita?”

Quella persona può essere aiutata a trovare un senso al dolore e alla malattia proprio a partire da ciò su cui ha appoggiato la sua vita.

La grande tentazione che tutti proviamo, stando vicino ad una persona che soffre, è di proporle il nostro sistema di valori, ciò che per noi è importante. Siamo tentati cioè di usare ciò in cui noi crediamo di più per aiutare l’altro a dare un senso al suo dolore.

Questo nostro sforzo è certamente apprezzabile, ma è inutile per la persona che soffre.

Chi soffre deve essere aiutato a trovare il senso della sofferenza dentro al suo sistema di valori, non imprestandogli il nostro.

 

 

 

 

La fede religiosa, di qualsiasi fede religiosa si parli, per molte persone è una grande risorsa su cui far leva per affrontare il dolore ed una prospettiva di vita limitata.

Quando qui si parla di fede, non si parla di fede magica, a cui ci si aggrappa per ottenere il miracolo quando non c’è più speranza. Non si intende neppure una fede fatta di pratiche abitudinarie dettate dalla paura o dal semplice dovere.

Per fede religiosa si intende qualcosa che ha dato un senso profondo a tutta la vita di una persona, che ha dettato i valori a cui la persona stessa si è ispirata da sempre.

Chi ha maturato una simile fede ha un enorme punto di appoggio per affrontare il dolore e per dare un senso alla sua malattia e alla sua morte.

La grande paura e la enorme angoscia che tutti proviamo di fronte alla morte è che con la morte tutto finisca.                                                                                                  E’ proprio la fede religiosa, qualsiasi essa sia, che con la sua certezza di sopravvivenza dopo la morte, buca il muro della fine della vita aprendo orizzonti enormi di eternità, superando la limitatezza dell’esserci e orientandoci ad una nuova vita senza fine.                                                                                                                                    E’ insopportabile l’idea di perdere le persone che amiamo, l’idea di non vederle e non incontrarle più.                                                                                                                  E’ ancora la fede a mutare la angoscia della caducità degli affetti nella sicurezza di amori eterni, nella certezza di legami che vanno oltre il tempo e lo spazio, nel “per sempre”.                                                                                                                                           Come si fa ad accettare di soffrire ? Non ha nessun senso il dolore, perché noi siamo fatti per star bene. La sofferenza ci chiude nella disperazione e nella rabbia.               La fede, proponendoci dei legami spirituali, ci toglie dall’egocentrismo del nostro dolore e trasforma la disperazione del nostro soffrire nella sofferenza per amore di qualcuno.

La fede così diventa luce che rischiara il buio, forza che muove la vita, proposta di senso.

 

 

 

                                     

Spesso sono proprio gli affetti a dare un senso alla vita delle persone, sono gli affetti ciò intorno a cui le persone organizzano la loro vita.

Ho incontrato Margherita, malata di AIDS, l’anno scorso.

Quando ci siamo incontrati la sua malattia era già molto avanzata e lei stessa era consapevole di non avere più molto tempo da vivere.

Margherita aveva un figlio di cinque anni che rappresentava per lei tutta la sua vita.

Lavorava per lui, viveva per lui, sperava di guarire per lui.

La sua grande sofferenza  era il pensiero di staccarsi dalla sua creatura e ciò che la terrorizzava era il fatto che il suo bambino sarebbe stato solo dopo la sua morte.

Insieme a Margherita abbiamo trasformato l’incubo della separazione dal figlio in una grande risorsa per dare un senso all’ultima parte della sua vita e per dare un senso alla sua morte.

Margherita ha vissuto gli ultimi mesi con l’intento di lasciare nella mente e nel cuore del figlio il miglior ricordo di se stessa, vivendo insieme il loro amore, facendo delle cose che il figlio avrebbe ricordato per sempre.

Margherita ha scritto al suo bambino delle lettere che avrebbe letto quando sarebbe stato in grado di farlo. Si è preoccupata di parlare coi parenti sulla futura sistemazione di suo figlio, si è preoccupata di dettare le sue intenzioni a riguardo dell’educazione del figlio, ha spiegato al figlio la sua malattia.

Tutto ciò, oltre ad aiutare il figlio, ha aiutato certamente Margherita a vivere bene l’ultima parte della sua vita e a vivere bene la sua morte.

 

Margherita ha saputo trasformare l’incubo della separazione in una occasione per un concentrato d’amore verso il suo bambino.

Ha vissuto in modo sereno, in certi momenti in modo addirittura piacevole, gli ultimi mesi grazie all’amore.

In questo caso gli affetti sono stati veramente una grande risorsa. 

 

“Voglio tornare a casa”. E’ la frase che grandi e piccoli pronunciano, specialmente quando non si sentono bene.

Ma che cosa avrà mai questa parola magica da avere il potere a volte di calmare immediatamente un bambino o un adulto?

La casa ha un potere magico perché richiama in noi tranquillità, intimità, difesa dall’esterno, sicurezza.

Lì ci sono le nostre cose, i nostri affetti, le nostre abitudini, i nostri ricordi, il nostro cibo, i nostri odori, i nostri suoni, i nostri angoli.

La casa è il luogo dove abbiamo amato, abbiamo affrontato le difficoltà della nostra vita, fatto nascere i nostri figli. Ogni suo angolo è intriso di ricordi e di affetti, ci parla di noi e di chi amiamo. Nessun luogo la può sostituire.

Volete paragonare un lussuoso albergo alla nostra casa ? Un albergo va bene per qualche giorno, ma poi è la casa che ci manca. Volete mettere gli odori e i rumori di un grande ospedale in confronto alla nostra casa ? Il paragone non regge.

La casa acquista un valore particolare  nel periodo della malattia.

Poter vivere la malattia a casa propria, circondati dalle proprie cose, dai propri affetti, coi propri ritmi è impagabile e dà molto sollievo alla persona malata.

Spesso su queste pagine abbiamo ripetuto che  il periodo della malattia fa parte della vita della persona e non è un periodo di parcheggio fuori della vita.

Se una persona ha gioito a casa sua, amato a casa sua, deciso delle cose importanti a casa sua, perché non dovrebbe anche vivere la malattia a casa sua ?

Perché espellere la persona da casa proprio quando ha più bisogno di intimità, di protezione, di calore, di famiglia ?

Ciò che spinge la persona malata fuori della sua casa, spesso, non è la mancanza di desiderio di essere a casa o, per i famigliari, la mancanza di desiderio di avere a casa il loro caro.

E’ la paura ad impedire di vivere la malattia in casa. Paura del dolore, dell’angoscia, dell’ignoto. La paura però può essere superata con un adeguato sostegno.

Tra i vari diritti fondamentali di una persona umana quello di decidere dove vivere l’ultimo momento della sua vita, cioè il momento della sua morte, non è certo il meno importante.

Una persona che è stata per tutta la vita capace di decidere le cose importanti che la riguardavano deve essere messa in condizione anche di decidere l’ultima cosa che la riguarda, forse la più importante perché conclude la sua esistenza, almeno quella fisica.

Morire in casa, in altri tempi ed in altri contesti, era naturale come lo era nascere in casa.

Nascita e morte erano eventi considerati naturali, parte della vita umana e della vita famigliare, da viversi nella famiglia.

Ancora oggi, all’interno di società con dimensioni molto più umane della nostra, tali eventi continuano ad essere vissuti nel gruppo famigliare.

 La nostra società tecnologica ha estorto alla famiglia questi eventi, rendendoli sempre più medicalizzati e sempre meno naturali, relegandoli in istituzioni, fuori del contesto famigliare.

La morte a casa, nel proprio letto, attorniati da coloro che ci hanno amato e ci amano, con i silenzi e i tempi della famiglia, rappresenta forse uno degli ingredienti più importanti della buona morte, lontano dal frastuono delle corsie, col personale indaffarato tra mille mansioni che giustamente deve svolgere.

Certo anche a casa propria l’atto del morire resta un atto personale, cioè un atto che la persona affronta da sola, ma viene partecipato e vissuto dall’intera famiglia, perdendo almeno in parte quel senso di angoscia dettato dalla solitudine che lo caratterizza.

Scrive Elias “Quando il morente sente che non riveste più alcuna importanza per le persone che lo circondano, allora è realmente solo”, forse perché all’atto della morte si aggiunge l’angoscia dell’abbandono in un momento così importante.

Consentire a chi muore di vivere la morte con le persone care, farlo sentire prezioso e importante per noi è molto consolante.

 

 

 

Sappiamo bene per esperienza quanti trucchi la nostra mente sappia escogitare per proteggerci dal dolore psichico.

Basta pensare alle cose incredibili che ci raccontiamo di fronte ad un nostro fallimento, pur di uscirne meno sconfitti, o alle capriole che la mente fa per togliere di mezzo ciò che ci disturba. Per farci star bene la nostra mente è disposta anche a nasconderci un elefante che sta dinanzi a noi, che tutti vedono meno noi.

Nel caso della malattia potenzialmente mortale sappiamo come le persone abbiano la capacità di negare la realtà per non soffrire. La realtà è lì, evidente in tutta la sua drammaticità, ma la persona non la vede cogli occhi, non la sente con le orecchie. E’ come se fosse cieca e sorda.

La negazione rappresenta un modo che la persona usa per reggere il terribile impatto con un dolore spropositato, troppo difficile da accettare e da sopportare.

E’ possibile negare sempre, fino alla fine, ma di solito la persona malata supera la negazione con l’avanzare della malattia, con l’aggravarsi dei sintomi. A momenti di negazione si alternano via via dei momenti di consapevolezza della realtà, magari non espressa.

Quando non è più possibile negare, almeno negare continuamente, che cosa fa la persona per difendersi dal dolore ?

Cerca la guarigione miracolosa, straordinaria. Poco importa se il miracolo viene cercato nell’ambito della magia ( il grande guaritore ) o della fede ( il santo )o della medicina ( il luminare ) o della medicina alternativa ( il guaritore laico ).

L’importante è continuare a sperare, a credere che ci sia una soluzione, una strada ancora percorribile.

Si dice comunemente che la speranza è l’ultima a morire ed è profondamente vero.

 

Forse che anche noi, se ci trovassimo in una simile situazione, non cercheremmo di aggrapparci all’impossibile pur di continuare a sperare ?

Non è giusto distruggere la speranza, anche se non è giusto rinforzare una illusione.

Nel nostro interno c’è uno spazio che ancora conserva tutte le caratteristiche di quando eravamo bambini.

Tutti, da bambini, abbiamo sperimentato il periodo della “magia”. Tutti abbiamo creduto ai miracoli, cioè alla possibilità di far succedere qualcosa al di là delle leggi della natura.

Vi ricordate quando, pur di andare ad una gita a cui tenevamo da impazzire ci mettevamo a recitare formule magiche per far cambiare il tempo, o quando credevamo che a forza di pensare una cosa quella cosa si sarebbe veramente

avverata ?

Quel bambino esiste ancora in noi, nonostante tutti i nostri sforzi per tenerlo a bada, per nasconderlo agli occhi degli altri.

Il bambino che esiste in noi viene fuori in varie occasioni della nostra vita. Una di queste è quando ci troviamo di fronte alla prospettiva di vita limitata, di fronte alla paura della morte.

Proprio il bambino che esiste in noi ci rende possibile credere all’esistenza del miracolo. Ciò che abbiamo magari condannato fino a pochi mesi prima diventa ora credibile ai nostri occhi. Omaccioni che da anni non mettono piede in una chiesa di colpo accendono candele ai vari santi cercando il miracolo. Uomini di scienza che si affidano a guaritori presunti tali pur di guarire dal male che si presenta inguaribile con le normali tecniche scientifiche.

E’ sperabile che chi vende speranza in simili situazioni lo faccia in buona fede. Sarebbe inqualificabile speculare sulla sofferenza altrui per arricchirsi!

Come reagire di fronte alla ricerca di “miracoli” vari ?

Sarebbe ingiusto e disumano negare alla persona il diritto di sperare in una possibilità di guarigione.

Con molto rispetto va magari suggerito “ Se tu ritieni che questo ti possa essere utile per star meglio fallo !”, alludendo al fatto che quella ricerca è un suo tentativo e non sarà magari risolutivo.

L’attenzione va portata sul senso di ciò che la persona cerca rivolgendosi al “guaritore”, magari per suggerire un senso più profondo che si nasconde dietro a ciò che fa.

 

 

      

E’ naturale che una persona malata, anche quando è gravemente malata, voglia guarire.

Sperare di guarire è naturale e legittimo sempre, anche quando l’evidenza sembra negarne ogni possibilità.

Ma  che cosa significa per la persona  “guarire”’?

Che senso ha questa parola tanto usata, soprattutto da chi soffre e da chi accompagna la persona che soffre?

Guarire non significa soltanto guarire fisicamente, cioè tornare sani nel corpo e fare le cose che si facevano prima di ammalarsi.

Quando una persona si ammala, specialmente quando si ammala di una malattia potenzialmente mortale, non si ammala soltanto fisicamente.

Questa  malattia non segna soltanto il suo corpo, ma tutta la persona, fino nel profondo.Essa infatti  mette in crisi il senso che quella persona ha dato alla sua vita, stravolge i valori su cui ha fondato il suo agire, distrugge i suoi progetti, minaccia la sopravvivenza dei suoi affetti.

Guarire significa fare, da parte del paziente e della sua famiglia, un cammino che consenta di vivere il momento della malattia nel modo più umano  e dignitoso possibile, imparare a vivere il qui-adesso come unica possibilità che la persona ha a sua disposizione, imparare ad organizzarsi il presente dando valore alle piccole cose e ai momenti di benessere , dare un senso alla malattia e al dolore, accettare il dolore  dopo aver fatto di tutto per alleviarlo.Spesso, ma non sempre, guarire significa anche guarire fisicamente. A volte guarire fisicamente non è possibile e la persona malata va purtroppo incontro alla morte.

Nel senso sopra spiegato una guarigione è sempre possibile, anche quando non è possibile evitare la morte.

Guarire dal non-senso, elaborare il distacco, esprimere le proprie emozioni,imparare dal dolore è sempre possibile.

Non guarire è restare disperati nel dolore senza trovarne un senso, è essere ingannati sulla propria malattia e non poter esprimere i propri sentimenti, è non poter decidere di se stessi.

 

 

E’ possibile sancire dei diritti per le persone morenti? Chi dovrebbe farlo?

La comunità umana ha sempre ricercato un “qualcosa” che fosse in grado sia di orientare i comportamenti dei singoli, sia di guidare la società nella quale i singoli vivono. Nella nostra cultura occidentale industrializzata si vanno determinando una molteplicità di orientamenti, da cui possono derivare consuetudini, comportamenti, normative diverse, in accordo alla libertà e alla pluralità di pensiero che ci caratterizza.

Anche le scienze della salute non sfuggono alla sete di libertà di chi le pratica: sempre più, dato l’aprirsi di nuove possibilità tecniche, ci si interroga su quanto sia lecito spingersi nell’applicare le nuove tecnologie.

Per tutelare i cittadini, indirizzare i comportamenti degli operatori e promuovere lo studio e l’osservanza dei principi etici fondamentali, sono sorti i Comitati di Etica presso varie istituzioni pubbliche e private, con diverse posizioni di base sia laiche che religiose.

Il Comitato di Etica della Fondazione Floriani di Milano ha elaborato la seguente

Carta dei diritti dei morenti

Chi sta morendo ha diritto:

1.           A essere considerato come persona sino alla morte

2.           A essere informato sulle sue condizioni, se lo vuole

3.           A non essere ingannato e a ricevere risposte veritiere

4.           A partecipare alle decisioni che lo riguardano e al rispetto della sua volontà

5.           Al sollievo del dolore e della sofferenza

6.           A cure ed assistenza continue nell'ambiente desiderato

7.           A non subire interventi che prolunghino il morire

8.           A esprimere le sue emozioni

9.           All'aiuto psicologico e al conforto spirituale, secondo le sue convinzioni e la sua fede

10.       Alla vicinanza dei suoi cari

11.       A non morire nell'isolamento e in solitudine

12.       A morire in pace e con dignità

Questi enunciati rappresentano un terreno di confronto per tutti: dalla riva della scienza a quella dell’etica.

 

Molte persone vedono la malattia e la sofferenza come una punizione. Attribuendo a Dio la causa della malattia, si chiedono quale grave peccato abbiano commesso per meritare una simile punizione.

Altri invece tendono a sublimare la loro sofferenza cercando di comprenderla come elemento di purificazione, come mezzo per guadagnare o meritare nell’al di là una condizione di piacevole serenità.

Altri invece, attribuendo i loro mali ad una oscura ed inspiegabile volontà di Dio, li subiscono passivamente, con un’accettazione rassegnata.

Questi atteggiamenti non debbono essere incoraggiati in nessun modo. Gesù non ha mai predicato la rassegnazione, ma ha lottato contro la malattia e la morte.

La volontà di Dio non è mai la sofferenza e la morte, ma il recupero, il perdono, la guarigione e, più di tutto questo, la salvezza come restituzione di senso della vita.

La parola di Dio è appello alla fede, intesa come costruzione di un quadro significativo di esistenza in cui è possibile inserire anche un’esperienza di sofferenza e la comprensione della morte come realtà superata nella prospettiva della resurrezione. Il Signore non è colui che manda il male, ma è colui che dà la forza di superarlo.

Salute, scrive un teologo protestante , non è tanto assenza di malattia o stato di completo benessere psicofisico, ma la forza di mantenere la propria dignità di uomini e donne nella felicità e nel dolore, nella vita e nella morte. Salute è la forza di vivere, di soffrire e di morire come soggetto libero e responsabile.”

Malattia e sofferenza mantengono la loro valenza negativa, tuttavia è importante il modo come le si vive e le si affronta. Si può vivere la propria malattia e la propria morte in senso distruttivo, nella paura, nell’angoscia, nella disperazione, come degli sconfitti. Ma si può vivere la propria sofferenza anche in modo costruttivo, imparando a convivere con lei, ricostruendo un frammento d’esistenza, nei limiti ristretti delle nostre potenzialità residue, degna di essere vissuta.

 

Il pallio era un grande mantello che gli antichi romani portavano sopra la tunica.

L’immagine del mantello richiama l’idea della copertura, della protezione, di qualcosa che difende dal freddo, dalle intemperie, che dà calore, intimità, sicurezza.

Non so chi abbia voluto adottare questo termine per definire una forma di assistenza riservata a coloro che stanno vivendo l’ultima parte della loro esistenza ( cure “palliative” ), ma l’intuizione è stata felice.

Tutti sappiamo che la nostra vita ha un termine, che non siamo eterni ed immortali. Eppure il pensiero del nostro trapasso ci riempie di paura e di ansia.

Nel momento della morte siamo soli : esperienza unica e irripetibile davanti al mistero insondabile dell’esistenza che si spegne, mettendo in gioco la nostra fede, la nostra speranza, il senso stesso della nostra vita.

Ma fino a quella soglia non dobbiamo essere lasciati soli!

Abbiamo bisogno di un mantello che ci copra, ci protegga, ci rassicuri, ci riscaldi.

Una mantello che riduca al massimo la sofferenza fisica . Un mantello che accolga la nostra ansia e la nostra paura, che ci dia pace per morire in pace. Un mantello che protegga i nostri cari dal disorientamento, dalla disperazione.

Essere accompagnati nel cammino più o meno lungo che si conclude con la nostra morte vuol dire essere aiutati a camminare nella verità, nella autenticità, liberi da illusioni, essere aiutati a morire nella consapevolezza e nella pace.

Grande è la sfida di coloro che, per professione o volontari, assumono con chiara coscienza il compito di accompagnare il morente e la sua famiglia!

Occorre mettere in atto un accompagnamento discreto, non invadente, che rispetta i momenti del silenzio, degli addii. Un accompagnamento che non si imponga mai, ma che sappia cogliere con grande sensibilità il momento del sostegno, della parola rassicurante, del gesto di aiuto, di solidarietà, di comprensione.

 

“Dopo avere per anni assistito le persone malate nei loro ultimi istanti, non ho appreso niente di più sulla morte in se stessa, ma la mia fiducia nella vita non ha fatto che crescere.

Vivo senza dubbio più intensamente, con maggior coscienza ciò che mi è dato di vivere, gioie e dolori, ma anche tutte le piccole cose quotidiane, ovvie, come il semplice fatto di respirare o di camminare.

Forse sono diventata più attenta a chi mi sta accanto. Essendo consapevole di non poter avere i miei cari al mio fianco per sempre, forse desidero scoprirli più fortemente di prima e contribuire nei miei limiti a far sì che diventino ciò che sono chiamati a diventare.

Così, dopo anni di assistenza a coloro che chiamiamo “moribondi” e che invece sono “vivi” fino all’ultimo, mi sento più viva che mai e lo devo a coloro che ho accompagnato negli ultimi istanti e che, nell’umiltà in cui li ha precipitati la sofferenza, si sono rivelati per me dei maestri.

Vorrei far capire come il tempo che precede la morte, oltre ad essere utile al compiersi di una persona, può essere utile per una trasformazione di chi le sta accanto.

Molte persone che muoiono, nel momento di lasciare la vita, ci hanno lasciato questo messaggio struggente: non ignorate la vita, non ignorate l’amore.”

Questo testo, liberamente tratto da “ La morte amica “ di Marie de Hennezel, esprime bene ciò che ci si porta nel cuore come operatori o come volontari dopo una ripetuta esperienza di assistenza a persone che vivono l’ultima parte della loro vita.

Il sentimento più presente è certamente quello della gratitudine per tutto quello che si sente di aver ricevuto da loro. Tutto ciò che è stato scritto in questi articoli è stato frutto della impagabile esperienza dell’accompagnamento ai pazienti.

A loro, alla loro sofferenza, alla loro morte saremo per sempre grati perché ci ha consentito di crescere come persone, di amare molto di più la vita e di comprendere qualcosa di più della morte.

 

  

“Perché questo fremito, pensando al tuo corpo imprigio­nato nella terra gelida dell'inverno? Perché? So bene che non sei lì, eppure, mio Dio, cosa so veramente?

Dove sei figlio mio amato? Il tuo corpo è laggiù sotto un cumulo di terra, ma la tua vita continua. La tua vita vera è qui, vicino a me, mio amato, nel silenzio della notte.

Signore, io credo, aiutami a credere!

Oggi il mio cuore e il mio spirito sono vuoti. Tutto è piatto, tutto è grigio, ma devo andare avanti. Da qualche parte qualcuno mi attende, lontano, molto lontano, ma che importa, egli sarà là ed io cammino verso di lui.

La morte ha rimesso tutto in discussione e ha tutto cancel­lato. I ricordi sono gocce di sangue che sgorgano dal mio cuore e mi lasciano esangue, senza forza, eppure…

Fino a quando, Signore, lascerai la tua povera servente camminare nelle tenebre? Fino a quando il mio cuore rimarrà silenzioso?

Ma la morte non è punizione. E' lo sbocco naturale della nostra storia di amore con Dio. Quello che mi riesce più difficile è che mio figlio ha spezzato volontariamente il filo della sua vita, e questo mi terrà in ginoc­chio davanti al Signore fino al nostro ritrovarci, fidando totalmente nella sua misericordia.

Alleluia, Gesù è vivente! La parola del Credo: "E' morto, è stato sepolto, è sceso' agli inferi" per cercare tutti quelli che lo aspettano. Questa parola mi aveva sconvolto, ma ora la comprendo, e più che mai!

Cristo il giorno di Pasqua è risorto, e con lui tutti quelli che è venato a cercare! In questa Pasqua io so che mio figlio, partito senza aver colto il senso della vita, senza averne capito la meraviglia, senza speranza, oggi è risorto con Cristo, nella sua trionfante resurrezione nella luce di Pasqua. Posso ora gridare la mia gioia:

Cristo è risorto ed è vivente, Alleluia"

 

(dal Diario di Maddalena Maurin, madre del giovane attore francese Patrick Demaere, suicidatosi alcuni anni fa).