Mother
(e.s.)
E’ sera,
ed è tardi, avrei bisogno di riposarmi un po’, affido mia madre debole e
fragile ad una sua amica con la
quale trascorre parte della nottata, ma sono giorni infausti e non riesco a
staccare la mente dal suo capezzale. Il mio pensiero è fisso in quella corsia
alla quale torno alle sei del mattino, quando varcherà l’ultima soglia io
sarò presente, ne ho la certezza da sempre. La rivedo: - sei arrivata
– mi sussurra. Sono quelle parole un supremo atto di fiducia, e sono anche le
prime parole intelligibili dopo alcuni giorni di coma. La malattia inesorabile
disgrega la sfera della sua coscienza sottoponendo ad intermittenza la sua
memoria ad un processo di lento dissolvimento. Io comunico con lei il linguaggio
dei sentimenti fatto: di intese, di incomprensioni conseguenti alla nostra
diversità, di intemperanze, di paziente attenzione ad ogni impercettibile
necessità, perché sempre intimamente partecipe delle sue vicende. Silenziosa
ma ancora pulsante percepisco dai momenti di lucidità dei brandelli della sua
vita. Pur essendo un ordito con strappi e vuoti, frammenti del suo passato
affiorano ossessivamente recuperati in tempi assai remoti portando in superficie
le paure e i traumi subiti.
I giorni
scivolano su di noi scanditi dalla malattia secondo un ordine non alterabile. Il
verdetto dei medici è stato inappellabile: nessuna possibilità di guarigione.
Ora la malattia mi appare
ripugnante per la cupa illibertà che l’accompagna: disgrega la sua coscienza
sottraendola a me e alla sua famiglia e mi sento impotente di fronte allo
strazio del corpo causato dalla sofferenza. So che la nascita implica la
morte, quindi nessuna sfida con essa risulta vincente: è una delle poche
solide certezze. Non sono in guerra perché la fine è ascritta nella nostra
dimensione di ‘esseri’ mortali, non si può evitare ciò che è necessario.
Facile a dirsi quando non si è a conoscenza del tempo che ci sarà consentito
vivere, altra condizione è sapere quando accadrà. Procrastinare un evento non
significa dare ad esso un corso diverso, tuttavia,
collocare la morte in una prospettiva remota
consente di sospendere nel presente l’angoscia e lo stato di crisi.
Sono divisa, di fronte all’imponderabile, fra sentimento e ragione. Il
razionale e l’irrazionale abitano in me da sempre, senza la pretesa di
unificare nulla, entrambi partecipi, in una unità di corpo, a cogliere il
possibile di quella realtà di morte, senza rassicuranti fughe, senza resistenze
e senza pormi domande a cui non saprò mai rispondere.
Il
male è dispotico, il dolore pesante…la morte reclama il suo sacrificio.
Bisogna partire senza indugi. Ho evocato tutte le nostre madri su fino alle più
remore antenate: - Venite a prendere la vostra figlia. Basta con la sofferenza.
Io vi prego Madri di terra e di cielo, vi prego ascoltatemi, accogliete la mia
di madre. Preparate banchetti e acqua fresca, che siano di sollievo per la sua
lingua annerita dalla malattia e arsa dal dolore. Che cessi questo respiro
affannoso….Madri ascoltate in nome del cielo siate dolci e leggere
proteggetela, aiutatemi, dividete con me questo travaglio che mi paralizza. –
Sono le
sei del mattino di un martedì di luglio, giornata luminosa dell’anno 2000,
calda ma con un grado di umidità accettabile.
Sento il
sole di luglio freddo sulla mia pelle, il cielo terso è lontano. Sento che quel
legame che mi lega a lei si sta modificando …….. si sfilaccia e cederà di
fronte all’inevitabile strappo, bisognerà ricucirlo con filato diverso…..Fa
male la lacerazione al mio corpo…
Quel
mattino, mentre sono alla guida dell’auto lungo la strada ne intuisco la
prossima separazione.
Ansima a
dei ritmi angoscianti perché il sangue alterato sottopone a sforzi il suo
cuore. Poi come acqua del mare sotto l’influsso della marea il respiro si
ritira risucchiato verso l’alto. L’addome, si svuota e diventa una cavità
innaturale. L’ultimo palpito si sposta in gola, le guance si gonfiano: tutta
la densità di un’esistenza in quel soffio, tutto un mondo che si allontana
inesorabile, la memoria del passato sprofonda con lei, portando con sé anche
brandelli di vita della mia infanzia, a me sconosciuti, che saranno cancellati
definitivamente…. - Tu madre sei
quel grumo energetico che scivola via. -
Vorrei mettere la mano davanti alla tua bocca, trattenerti, proteggerti.
Rimango immobile. - Madre devi andare. - La
tua bocca si dischiude in una parvenza di sorriso e attraverso quella sottile
lamina vuota tu parti. Ti percepisco nella camera guardo nell’aria oltre quel
fragile involucro che è il tuo corpo. Cerco il respiro e una parvenza corporea
in quell’alito, il desiderio di acchiappare quel fiotto di vento per ritrovare
le tue fattezze rimpicciolite …
l’essenza di madre. Il tempo è dimenticato,
sospeso, ho freddo…..sento nella mia gola un richiamo famelico di un
contatto umano e un bisogno inappagato di calore. Poi esplode una rabbia
violenta per la brusca interruzione di quel legame Il cane guida si sta
allontanando: - maledetto mi hai lasciato. -
Una sorte di guaito affiora dalle mandibole irrigidite in una smorfia di
sgomento. - Mi hai tradito. - Le cellule del mio corpo si sfarinano. Ho bisogno
di uccidere l’immagine mentale di madre per patire un po’ meno, ho bisogno
di compiere un gesto forte di determinazione emotiva, di vitalità compensativa.
La belva non civilizzata non riesce a piangere, ruggisce. Maledetti tutti! La
lunga catena di sacrifici di mia madre non sono valsi a risparmiarle nessuna
sofferenza, anche la morte si presenta nella sua veste sciagurata: la malattia.
Mi ribello a quell’ennesima offesa a
questa ingiustizia di un mondo ostile. E’ il momento dell’ira e di un
muto risentimento per una società ingiusta, siamo esseri mortali ma
quanto delle avversità incontrate nel corso della sua esistenza sono state
determinanti nel piegare la sua volontà e logorare il suo corpo. Sono contenta
di essere sola, lì, mentre rifletto sugli stenti che lei ha patito. Mi è stata
risparmiata la ripugnanza delle frasi di convenienza per l’evento, pronunciate
da anonimi, con la loro inutile pietà. Sola e consapevole che
l’infinito è qui con il suo mistero con le mille domande sul senso
della vita e sulle passioni. In quel passaggio dalla vita alla morte, la mia
presenza lì, esserci, è stato l’unico desiderio. Lascio ai filosofi i
quesiti astratti. Quel contatto corpo a corpo ha significato esplorare confini,
andare oltre e vedere, prendere in mano le mie sorti e verificarne i limiti.
Sono
attimi. - Madre ti lascio andare, - poi
un gesto di saluto verso la finestra socchiusa. Vai madre verso la montagna
inaccessibile dove brillano i ghiacciai eterni: finalmente sei potente, pura
energia nel plasma celeste.
Lo strappo
lascia la ferita aperta ma si placa
la battaglia interna, si scioglie la rabbia in una sorta di torpore.… Mentre
si dischiude e prende forma un nuovo pensiero,
vorrei cantare una nenia antica, una melodia monocorde, un canto appena
percettibile… il lamento sottile del lupo. Ho il prepotente desiderio di
accovacciarmi in un angolo della stanza, in una posizione fetale ed ondeggiare
piano al suono del lamento.… ma sono consapevole della presenza in camera di
due pazienti anziane spaventate. Sono a disagio, nuda con il mio dolore -
Mi dispiace, mi dispiace tanto – dico a loro. Di che cosa della mia
rigidità di monolite ?
Ho
Percorso i corridoi del reparto seguendo la barella fino alla camera mortuaria.
Scosto il lenzuolo dal tuo volto, prendo il profumo dalla mia borsa e incomincio
ad aspergerti il viso, ti pettino i capelli, con pudore passo le dita sugli
ematomi lasciati dalle flebo sulle braccia e sulle mani, sono carezze leggere ..
Anche in quel luogo non siamo sole. Altri corpi avvolti nel mistero giacciono
vicino a noi. Avrei voluto delle candele profumate, centinaia di candele attorno
a te. - I lumini ti accompagnino, - ma sono io che mi sono smarrita. - Presto
datemi oli profumati: dell’essenza di melissa per massaggiare le tue tempie,
sia quiete per quella piccola vena viola. Datemi l’essenza di rosmarino per
ungere la gola e le gote, datemi olio di giaggiolo, pulito, dolce, amichevole,
lo strofino sul tuo corpo che sa ancora di talco malgrado la morte. Lasciatemi
stare lì per un giorno e una notte a bruciare incenso dall’aroma di zagare.
Hai tanto amato le tue piante di limoni: agrumi dai colori caldi e dai fiori
profumati. Avrei voluto che ti riposassi in una bara di cedro -…
Attingo
alle radici selvagge della mia mente l’antico cerimoniale funebre e affido la
mia consolazione a: gesti,
pensieri, comportamenti non scritti ma che affiorano spontanei. Le infinite
ripetizioni mi confortano: è un
copione già scritto da milioni di persone. Mi sento nel flusso, ricongiunta ad
altri supero l’isolamento temporaneo: ora anche mia mamma fa parte della
storia assieme alle generazioni del passato; starà a me non dimenticare. Si
stempera la rabbia violenta per il doloroso taglio inferto dalla morte. Si
affacciano un po’ di quiete, e una profonda accettazione, è un momento
mistico che mi commuove, ora piango. Colgo il senso del sacro in questo rituale
antico senza trascendere nel divino. Mi sento compassionevole e ciò mi
rassicura. Mi consente di spaziare oltre
me stessa, nella vastità. Sono parte di una specie il cui destino tutti ci
lega, sta in noi scegliere legami di solidarietà o vincoli improntati ad
egoismo narcisista.
La luce
della camera mortuaria è soffusa, l’osservo, evoco ricordi, alcuni un po’
sbiaditi ma ad intermittenza i brandelli sgualciti si tessono in nuova tela.
Vedo una
bambina affamata. La tua famiglia è la più povera del paese. – Sai un
inverno non avevamo neanche più patate. – Sono gli anni bui della guerra. Sei
andata in paese in bicicletta, sola, ogni fruscio proveniente da rive e cespugli
ti terrorizza. Tedeschi e fascisti imperversano. E’ dicembre del 1943. I
fascisti hanno innalzato una forca, in centro del paese, hanno impiccato il
partigiano Alfredo Sforzini. Mi descrivesti il terrore provato per l’obbligo
di passare sotto la forca. La lasciarono qualche giorno con appeso il cadavere,
doveva servire da monito per la popolazione. – Sai, era così bello quel
ragazzo! – Mamma l’ho eletto fratello di sangue.-
La schiena
è curva mentre lavori nei campi. La pancia gonfia, gravida, la zappa, le zolle,
la terra: tutto è pesante, ed il dolore improvviso, le doglie e il parto
prematuro: la mia nascita. Poi la sentenza di tua suocera. Non spendere soldi
dal medico tanto non ce la farà è troppo piccina. Troppa fame patita, troppa
frutta acerba per attenuare le nausee, troppa miseria e non solo materiale. Tu
hai creduto in me. Così è stato.
Ora
ricordo: le ombre allungate sulla parete dell’unica camera da letto. Esse
fluttuano, si indeboliscono, Le
ombre diventano fantasmi giganti mentre la fiamma consuma lo stoppino del lume a
petrolio, l’odore acre si espande nella camera e sale alle narici. Coricata
dopo una giornata di fatica con il piede imprimi automaticamente un movimento
ondulatorio alla culla dove dorme la mia sorellina. Sono sveglia, nella
semioscurità ascolto e guardo i riflessi deformi della fiamma sulle pareti. Ho
paura, ma sto immobile. Le parole….le parole non vengono, non so come dirlo.
Penso, forse si può udire quel silenzio rumoroso d’angoscia che è in ognuno
di noi. Sarebbe sufficiente chiudere gli occhi e sentire il suono dolente delle
parole non articolate. Al primi
giorni di ricovero in ospedale, un paio di mesi prima: - sai – mi dicesti –
non ho mai alzato la voce per farmi ascoltare. – Sbagliavamo madre. –
Quanta
pena nelle sue parole - Era così affollata quella famiglia, papà ed io eravamo
animali da soma. Comandava la gerarca. Sommando te ed il cane che stavate
prevalentemente sotto il tavolo eravamo in quindici. Io non so come si vincono
le battaglie. –
Riposa
mamma, veglierò io.
Io sono
stata operaia, lo sarò sempre, ho fatto il possibile per accompagnarti, ma ho
avuto anch’io le mie catene. Con gesti disarticolati ho lavorato alla catena
di montaggio; accompagnata dal suono ritmico degli ingranaggi come fossero una
canzone strascicata; inserita in una traiettoria ellittica, fissa come un
pianeta.
Madri,
migliaia di vostre voci non faranno mai un coro, troppo fievole e appannata dal
pianto, troppo pazienti e stanchi i lamenti.
Dormi
madre, riposa, la carne è paziente e cedevole.
Dopo anni
di mutamento vennero anni di appiattimento culturale. Sono spesso modelli di
‘sparvieri’ quelli proposti. Uomini rapaci a proprio agio nella
competizione, feroci, pronti a combattere per accaparrarsi tutte le risorse.
Segregata, mai sola, ha trovato rifugio nel mondo della natura. Non è più quel
mondo contadino, un po’ feudale, oppressivo, ossequioso con i potenti i quali
potevano umiliarli senza ragione, per puro esercizio di dominio. Quel mondo
della natura è fatto di animali e piante, gli uomini sono accessori spesso
incompatibili. Quel mondo l’ha eletta ‘grande maestra’, perché ha
riconosciuto in lei un’autorevolezza prodigiosa. Ha lasciato cadere i semini
in solchi così diritti da sembrare rette tracciate con il righello. Ha avuto
cura che ogni piantina avesse il suo spazio vitale distribuito con equità. Gli
animali e le piante la vezzeggiano e crescono rigogliosi. Conquistata dalla loro
bellezza e generosità lei li ha amati, il suo lavoro è stato una sinfonia
melodica di un fine direttore d’orchestra, un lavoro di cesellatura
appassionato e paziente. E’ stata compassionevole anche con un animale vecchio
o con una pianta rinsecchita infischiandosene se non erano produttivi. Le ha
voluto bene e questo è un sentimento superiore.
Baci ed
abbracci non sono nelle nostre corde, sono gesti desueti per noi. Ma ho tratto
insegnamento dalla tua vita, c’è una fiammella dentro i mie pensieri che
illumina la strada che ancora devo percorrere.
e.s..