1956 a sinistra- None 10 nov 2006
Un
amico mi ha chiesto: ma perché proprio voi? E’ acqua passata. D’accordo, ma noi non siamo così sicuri di noi stessi e così prepotenti da presumere di avere la forza e la virtù per poter prendere in mano il nostro futuro con un atto di volontà. Però una cosa la sappiamo: quella piccola o grande parte di futuro che dipende da noi la potremo attraversare solo se sapremo affrontare gli interrogativi più scomodi e inquieti. Le grandi rimozioni ci consolano a breve termine, ma non ci aiutano a lungo andare. Ci servono mente lucida e occhi aperti non solo per sognare, ma per vedere. E questa vecchia storia del ’56 ungherese ogni tanto ricorreva nelle nostre discussioni, fino a quando non è affiorata l’idea di approfondire. Non abbiamo scoperto niente di nuovo, ma quello che c’era già lo abbiamo visto più da vicino. E questa sera ve lo presentiamo con l’aiuto di tre amici. Claudio Canal è un intellettuale senza tessera che dagli anni sessanta partecipa alla tormentata vicenda della sinistra italiana con un punto di vista non conformista e senza manie di protagonismo. Lo trovi dove si discute e si studia, ma anche dove si promuove la solidarietà concreta con i popoli oppressi. Francesca Spano è un’insegnante pinerolese molto amata specialmente dagli studenti che ogni tanto l’hanno anche odiata. L’abbiamo invitata perché, avendo partecipato alla contestazione giovanile studentesca e operaia del ’68, è una donna che come poche sa soffrire e ridere delle grandi contraddizioni della sinistra italiana. Per questo sa attraversare le stagioni dell’avanzata e del ripiegamento senza illudersi e senza smettere di comunicare il desiderio di liberazione e di emancipazione. Alberto Tridente ha dedicato la sua vita al movimento sindacale unitario. Ha cominciato come operaio alla Cromodora e poi, nella FimCisl di Carlo Borra, Cesare Delpiano e Tonino Chiriotti ha costruito la riscossa del movimento sindacale a Torino, alla Fiat, in Piemonte, in Italia e nel mondo. Da Venaria è arrivato a conoscere Lula in Brasile quando, dalla segreteria nazionale della FLM, ha cominciato a costruire iniziative di solidarietà con gli operai della Fiat brasiliana, della Seat di Barcellona e nel Cile di Pinochet. I fatti di Ungheria sono stati per lui un punto di non ritorno e di partenza. INVERNO
1956 A BUDAPEST: BREVE
CRONISTORIA DI UN’INVASIONE Dopo la morte di Stalin nel marzo del 1953, Kruscev aveva dato inizio alla destalinizzazione. Egli portò con sé al potere una leva di quadri meno compromessa con il vertice dello stalinismo, anche se la figura di Stalin restava temuta e amata fino a forme semireligiose di venerazione. Nel febbraio ’56, il progetto krusceviano approdò alla clamorosa scelta di denunciare, dalla tribuna del XX Congresso del PCUS, il “culto della personalità” di Stalin, presentando un “rapporto segreto” sui suoi crimini. Il rapporto venne prima pubblicato dal “New York Times” e solo successivamente – ed in forma incompleta – comparve su “l’Unità” diretta da Pietro Ingrao. Tantò bastò per suscitare negli ambienti di tutta la sinistra europea socialista e comunista la speranza di una democratizzazione dei regimi guidati dall’Unione Sovietica. Ma il sogno durò pochi mesi e non curò le ferite già aperte dalle rivolte operaie del giugno 1953 contro “l’ordine socialista” a Berlino Est, in tutta la Germania orientale e poi in Cecoslovacchia. In Polonia, il 28 giugno 1956 gli operai della Zispo, una fabbrica di locomotive di Poznan, entrarono in agitazione e la loro protesta dilagò nella città fino a diventare insorgenza di popolo: finì nella repressione e in un bagno di sangue che costò la vita a 38 operai. A ottobre in Ungheria scoppiava una vera e propria insurrezione. A luglio era caduta la leadership di Rakosi, strettamente legato a Mosca. Al vertice del governo si era insediato Gero, un uomo ostile ad ogni proposito riformatore. A inizio ottobre una folla di 300mila persone Budapest protestò contro il nuovo premier partecipando in massa ai funerali di Rajk, una vittima della repressione staliniana. Imre Nagy, un comunista innovatore, in passato vittima della repressione stalinista, viene reintegrato nel partito. Il 23 ottobre iniziò l’insurrezione e una gigantesca statua di Stalin fu rovesciata da un fiume di popolo. Vennero disserrate le prigioni e cominciarono a sorgere nelle fabbriche i “Consigli operai”, organismi di autogestione della produzione e di controllo democratico del governo. Diventato capo del governo, Nagy cancellò i “campi di lavoro”, concesse un’amnistia ai prigionieri politici e lasciò agli intellettuali del circolo Petofi lo spazio per chiedere riforme democratiche, autogestione operaia, elezioni libere e segrete. Un primo appello sovietico alla resa ebbe come risposta la dichiarazione di sciopero generale e l’assalto alle caserme dell’Urss. Mosca allora fece evacuare da Budapest i reparti dell’Armata Rossa. Il dibattito in Italia lacerava gli animi e scuoteva antiche certezze, La prima testimonianza che ascoltiamo è di PIETRO
INGRAO “Mentre
si dispiegava quell’urto sanguinoso, io
vissi l’errore più grave della mia vita politica. Scrissi
un editoriale per “l’Unità” che condannava la rivolta ungherese e
aveva un titolo roboante: ‘Da
una parte della barricata a difesa del socialismo’. Purtroppo
in quello scritto era gravemente falsa la
rappresentazione dei fatti: in
quei giorni il popolo ungherese difendeva
la libertà del suo paese dall’attacco armato di Mosca. E
il grande obiettivo della lotta per il socialismo, che ci muoveva, non
poteva cancellare l’autonomia di nazione, e
meno ancora la libertà di pensiero e di parola avanzate ormai
sulla scena dalle rivoluzioni borghesi, e
poi divenute rivendicazione centrale nella
spaventosa seconda guerra mondiale. Né
erano possibili deleghe di potere a una minoranza carismatica, per
geniale e ardita che fosse. Il 1 novembre veniva annunciata l’intenzione dell’Ungheria di uscire dal patto di Varsavia. All’alba del 4 novembre le truppe corazzate dell’Armata rossa si lanciarono in un selvaggio attacco ai quartieri della capitale. Csepel, il cuore produttivo della Budapest operaia fu quasi raso al suolo. Pietro Ingrao non osava parlare con sua moglie e parlò invece con Togliatti. La
notizia grave dell’invasione sovietica, l’appresi al mattino al
giornale. (..) Telefonai a casa e dissi a Laura che non andavo a
mangiare. Mi
chiese perché: risposi con una bugia. Io
avevo un dialogo intenso con mia moglie: sapeva
tutto delle mie inclinazioni politiche (..) Quella
mattina del 4 novembre non avevo voglia di parlare, nemmeno
con lei. La
redazione era semivuota. Frugavo nei miei pensieri. Girai
per ore per le vie di Roma, solo e sempre interrogandomi su
quell’aggressione che mi sembrava inspiegabile e infame. C’era
un cielo annuvolato quando giunsi – quasi alle soglie della sera – in
casa di Togliatti a Montesacro. E
gli dissi subito il mio sgomento più ancora che la mia sorpresa per
quell’invasione. Togliatti mi rispose asciuttamente: -
Oggi io invece ho bevuto un bicchiere di vino in più
– Non
ebbi il coraggio di replicare. Mi
limitai a dire che non condividevo il suo giudizio. Pietro Ingrao, Volevo la luna, Einaudi 2006.
Nagy fu arrestato e portato via su una vettura dell’ambasciata jugoslava. Nel giro di pochi giorni la rivolta era domata. I caduti furono 2.500 e 20mila i feriti. Duecentomila i profughi arrivati solo in Italia. Il leader che giungeva al potere, Kadar, si assumeva la funzione di “normalizzare” il paese, ripristinando la fedeltà all’Unione sovietica. Due anni dopo, nel 1958, Nagy fu giustiziato con l’impiccagione. Palmiro Togliatti volle mostrarsi impassibile. Palmiro Togliatti
“Ho
visto che deputati di tutte le correnti, a
cominciare dai fascisti, naturalmente, hanno
fatto numerose dichiarazioni a proposito del processo e
della condanna dei capi della rivolta ungherese del 1956. Per
conto mio non ho nulla di particolare da dichiarare. (…). La
lotta in Ungheria fu (…) un’esasperata lotta politica e di classe fra
la reazione di un regime popolare che
dovette alla fine difendersi con tutti i mezzi”. Palmiro
Togliatti dopo l’esecuzione di Nagy (giugno 1958) In
G. Bocca, Palmiro Togliatti, Mondadori, 1973, p. 557 La repressione della rivolta ungherese aprì una profonda lacerazione nel movimento comunista occidentale. Il Pci di Togliatti parlò di intervento necessario “per porre fine all’anarchia e al terrore bianco”. La Cgil condannò i metodi non democratici di governo e l’intervento delle truppe straniere, ma verrà richiamata all’ordine e si farà dire a Di Vittorio di aver rilasciato quella dichiarazione solo per tenere unito il sindacato. Sentiamo la testimonianza di Miriam Mafai. MIRIAM
MAFAI “Come
spesso mi accade, mi sbagliavo. E,
come sempre, per eccesso di ottimismo. Dopo
la mazzata del XX Congresso ci
fu quella dell’invasione dell’Ungheria. E
chi ebbe dei dubbi sulla legittimità di quell’intervento ed
ebbe il coraggio di esprimerli pubblicamente –
ricordo per tutti il caso di Giuseppe Di Vittorio – venne messo a tacere, anche con qualche brutalità. Non
parlo del povero Terracini che i dubbi sul carattere socialista dell’Urss li aveva espressi,
solitario, da molto tempo, e
che continuò ad esprimerli, da solitario…”. FOA-MAFAI-REICHLIN, Il silenzio dei comunisti, Einaudi, 2002
I ricordi di Antonio Giolitti sono struggenti. Antonio Giolitti “In
quegli stessi giorni capitò che Di Vittorio, il
quale abitava nel mio stesso palazzo sulla
via Cristoforo Colombo, al piano sotto il mio, mi
accompagnasse da Montecitorio a casa sulla sua automobile. Parlammo
naturalmente dell’Ungheria. Quando
stavamo per arrivare fu travolto dall’emozione: “Quelli
sono regimi sanguinari! Sono una banda di assassini!” diceva con la voce
rotta dal pianto. Fui
sconvolto nel vedere quel macigno, quel
gigante che singhiozzava. Davvero
fu per tutti un dramma terribile. Antonio
Giolitti, Lettere a Marta, Il Mulino 1992. Ma già durante il corso della rivolta e prima ancora che essa culminasse nella tragedia, con la clamorosa “Lettera dei Centouno” inviata il 29 ottobre al Comitato Centrale del Pci, si erano levate potenti voci di dissenso. Tra
queste, quella di Paolo Spriano, che sarebbe diventato autorevole storico
del Pci, e che mette in luce – o meglio in ombra, se si preferisce –
anche il ruolo di Pietro Ingrao. PAOLO
SPRIANO “Ricordo
la sera in cui le agenzie di stampa avevano
trasmesso il testo della ‘Lettera dei Centouno’. Sotto
la sede dell’Unità, in via 4 novembre, si
era radunata una folla di dimostranti fascisti. Quando
entrai nella stanza del direttore, Pietro
Ingrao mi accolse con uno sguardo che voleva dire: “Tu
quoque”. Tra le voci di dissenso Alberto Asor Rosa, Luciano Cafagna, Italo Calvino, Alberto Caracciolo, Lucio Colletti, Renzo De Felice, Antonio Maccanico, Piero Moroni, Carlo Muscetta, Elio Petri, Massimo Salvadori, Natalino Sapegno, Paolo Spriano, Mario Tronti. La maggior parte di loro, come Antonio Giolitti, lascerà il partito. Ecco che cosa disse Antonio Giolitti all’VIII Congresso del Pci, quando prese la parola per esprimere il suo dissenso in un clima di diffidenza e di ostilità- ANTONIO
GIOLITTI “Non si può costruire il socialismo senza libertà
e senza democrazia. Perciò noi oggi possiamo e dobbiamo proclamare, senza
riserve e senza doppiezze, che le libertà democratiche – anche nelle
loro forme istituzionali, di divisione dei poteri, di garanzie formali, di
rappresentanza parlamentare – non sono ‘borghesi’, ma sono elemento
indispensabile per costruire una società socialista nel nostro paese (..) Anche
la più solenne nostra dichiarazione sul valore permanente delle libertà
democratiche è parola vana se continuiamo a scrivere nel nostro programma
e nelle nostre tesi che gli errori e i delitti denunciati al XX Congresso
non hanno intaccato la permanente sostanza democratica del potere
socialista e se definiamo legittimo, democratico e socialista un governo
come quello contro il quale è insorto il popolo di Budapest il 23
ottobre. Ecco dei casi di doppiezza che bisogna condannare ed eliminare
(..) Il giudizio, la convinzione, non possono venir
imposti per disciplina. Occorre la persuasione, attraverso il dibattito,
il confronto aperto e leale delle opinioni diverse (..) Se si è convinti che viene commesso un errore, si ha
il dovere di dirlo e di battersi per correggerlo (..) Non abbiamo soltanto accettato senza critica certe
teorie sbagliate e la esagerata esaltazione di un uomo. Abbiamo anche
partecipato all’applicazione di metodi errati. Alcuni, e io tra questi,
perché hanno taciuto quando dubitavano e
dissentivano. Altri perché hanno difeso e sostenuto questi metodi.
Perciò deve essere chiaro che noi facciamo la più radicale autocritica
di tali errori, denunciandoli e condannandoli anche come errori nostri,
per la parte che ci spetta. Antonio Giolitti all’VIII Congresso del Pci,
dicembre 1956. La mia lettera di dimissioni dal partito è del 19
luglio 1957. Questa lettera venne pubblicata da “l’Unità” il
23 luglio. Due giorni dopo sullo stesso giornale in prima pagina compariva
un articolo di Ingrao con il titolo “Il cedimento di Giolitti”. Mi
sembrò di esser diventato un pavimento. Antonio Giolitti, Lettere a Marta, Il Mulino 1992.
Dopo Giolitti, al Congresso comunista del dicembre ‘56 prese la parola Giorgio Napolitano, che nella sua recente autobiografia, così ricorda quei momenti. GIORGIO
NAPOLITANO “La
giustificazione del sanguinoso intervento militare sovietico per
soffocare un moto popolare bollato come controrivoluzionario è divenuta
e rimane –
per diversi dirigenti comunisti di allora, giovani e meno giovani (penso
a Pietro Ingrao) – motivo
grave di riconoscimento e tormento autocritico. Anche
per me: trent’anni dopo –
quando si aprì una riflessione critica su quella vicenda – volli
dare pubblicamente atto ad Antonio Giolitti di
aver avuto ragione. Aveva
pronunciato il solo discorso di netto e sostanziale dissenso dalla
tribuna dell’VIII Congresso, e tra i primi interventi polemici nei
suoi confronti c’era stato il mio. Mi
mosse allora, ritengo, anche un certo zelo conformistico: ma
la spiegazione, per l’atteggiamento mio e di altri che hanno poi
ammesso la gravità dell’errore, richiede
un discorso ben più complesso. Da
un lato ci animò la preoccupazione – che ci saremmo portata dietro
ancora per decenni come imperativo – dell’unità del partito contro
il rischio di disgregatrici distinzioni e lotte interne, e della difesa
del partito da pericolosi attacchi esterni. Dovemmo perfino rintuzzare manifestazioni
ostili di destra contro le nostre sedi”. Pagine che si rileggono combattendo con un profondo senso di tormento e di umiliazione. Forse questo accadeva perché il mondo era diviso in due e quando si combatte per la vita contro un nemico mortale, qualsiasi dubbio o incertezza viene colpevolizzato come un cedimento, un segno di debolezza quando non addirittura un tradimento. Funzionava il centralismo democratico, un metodo molto severo e molto rigido che dirige un partito come un esercito (o una Chiesa): esso consiste in un metodo di formazione delle decisioni che obbliga tutti i partecipanti al dibattito non solo ad applicare le decisioni prese a maggioranza, ma vincola tutti a non divulgare all’esterno i motivi del dissenso perché ciò viene considerato un vantaggio regalato all’avversario da combattere. Ci sono due episodi divertenti, il primo è ricordato da Vittorio Foa. VITTORIO
FOA “Ricordo
un piccolo episodio che dà un’idea del clima. Nel
1951 scrissi un articolo sul mio viaggio in Unione Sovietica, in cui a un certo punto citavo Stalin in
termini puramente oggettivi, non
come il leader, il capo, ma come una persona normale, di
cui rispettavo il coraggio. Avevo
dato il mio articolo, che doveva uscire su “Rinascita”, a
Marcella Ferrara, che
dopo qualche tempo mi fece sapere che
Togliatti chiedeva se non era possibile cambiare
un pochino il passo su Stalin”. V. FOA-C. GINZBURG, Un dialogo, Feltrinelli, 2003. Il secondo ha invece come protagonista Rossana Rossanda e ci dice come il centralismo democratico abbia prodotto una miscela di comportamenti e di rapporti personali segnati dall’ipocrisia e dalla censu ROSSANA
ROSSANDA “Un
po’ di tempo prima Kruscev aveva tenuto un discorso di una supidità
sconfortante sugli intellettuali. Togliatti mi chiese di scriverne per
“Rinascita”. Obiettai:
“Guarda
che è un brutto discorso”. “Appunto”. L’indomani
era in direzione e gli feci portar dentro il mio pezzo che cominciava: Me lo restituì con l’incipit cambiato: “L’interessante
rapporto del compagno Kruscev pone alcuni problemi”. Glielo
rimandai dentro: “No
che non è interessante”. Tornarono
altre due righe verdi. “Ma
quali problemi. Per favore”. “Suscita problemi e perplessità”. “Ma quale perplessità?”. Risposta verde: “Chi è il segretario del
Pci? Tu o io?”. Il pezzo uscì con i problemi e le perplessità. Era
così, non ebbi crisi di coscienza, ero di un’altra, molto altra
generazione, e conoscevo i limiti del contratto. C’era stata una punta di gioco nel nostro rapporto,
io non contavo nulla e potevo permettermi qualche intemperanza. In
segreteria o in direzione non mi sarebbe andata liscia”. Rossana Rossanda, La ragazza del secolo scorso, Einaudi 2005. VITTORIO
FOA “Ci
si può proclamare differenti nella parità, nel
rispetto degli altri, nel
vedere gli altri come una risorsa attiva nella nostra vita. Ci
si può invece proclamare differenti per affermarsi superiori, come
gente chiamata a dirigere gli altri: la
differenza diventa affermazione di comando”. |
GIORGIO
AMENDOLA “Occorre
un partito nazionale e insieme internazionalista, cioè
fraternamente legato ai partiti comunisti del mondo intero, a
quelli che lottano come noi nei paesi capitalisti, a
quelli che sono al potere in tanta parte del mondo e
costruiscono il socialismo, e
prima di tutti al glorioso Partito Comunista dell’Unione
Sovietica”. Giorgio Amendola all’VIII CongResso del Pci, dicembre 1956 CARLO
CASSOLA "Ormai
tutti, anche i comunisti, vedono qual è il rimedio
per
uscire da questo marasma: un grande partito democratico, che
accetti la Costituzione repubblicana come
l'ordinamento politico permanente della nostra società, che
raccolga tutte le forze socialiste e
si ponga come semplice alternativa di governo alla
democrazia cristiana. Un
partito non più fondato sul mito, sul fanatismo e sul conformismo, che
tanto male hanno fatto ai lavoratori italiani, ma
sulla consapevolezza della giustezza dei propri programmi; non su formule
teoriche che ormai non vogliono dir più niente, ma
su programmi precisi e chiari di rinnovamento delle
strutture amministrative, sociali ed economiche. Un
simile partito non potrà più sbagliare nel giudicare la
crisi in atto nel mondo comunista, ne
individuerà chiaramente il corso, dirà
in anticipo quello che è bene e quello che è male negli
esperimenti comunisti, BEPPE
FENOGLIO Già il 9
settembre (1943)
noi comunisti
siamo partiti
con un
programma massimo
ed un
programma minimo.
Il massimo
consiste
nella
rivoluzione comunista
come
corollario e coronamento
della lotta
di liberazione.
In difetto,
ed ecco il programma minimo,
parteciperemo
con mezzi convenzionali
alla
competizione
per la
maggioranza parlamentare.
Johnny
disse: “Ecco,
prego che siate costretti al
programma minimo. Vi
vorrò bene, e voi al programma minimo”. Beppe Fenoglio, Il partigiano Johnny, Einaudi, 1968. ITALO
CALVINO “D’altro
canto, c’era sempre la morale
che
bisogna continuare a fare quanto si può, giorno per giorno; nella
politica come in tutto il resto della vita, per
chi non è un balordo, contano quei due principi lì: non
farsi mai troppe illusioni e
non smettere di credere che
ogni cosa che fai potrà servire”. I.
CALVINO, La giornata di uno scrutatore, 1963. |
DALL’UNGHERIA
A NONE
DAL
1956 AD OGGI
Stare dalla parte dei massacrati e contro i carnefici sembrerebbe naturale. Ma nel caso dell’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956, gli operai comunisti rimasero saldamente legati al partito di Togliatti. Il dissenso ci fu e fu clamoroso, ma investì una minoranza laboriosa di intellettuali e non andò oltre. Claudio Canal si è domandato come mai. Erano ignoranti, mal informati, vittime della loro ingenuità, stregati dal mito dell’Urss, indottrinati dal culto della personalità di Stalin?
Lo stesso problema lo hanno avuto i tedeschi durante gli anni del nazismo, ha notato Francesca Spano. Hitler è andato al potere con il voto della maggioranza dei tedeschi, ha aggiunto Alberto Tridente, ma il nazismo diventa assurdo solo se non si vedono i milioni di disoccupati, la catastrofica svalutazione del marco e l’umiliazione della Ruhr occupata. Claudio Canal non si è acquietato e ha chiesto come potrà essere valutata fra 50 anni la nostra attuale insensibilità di fronte al Mediterraneo che è diventato un cimitero di acqua per migliaia di immigrati colpevoli di cercare la via della sopravvivenza lontano dalla fame e dalla miseria delle regioni subsahariane. Non è questa tragedia un genocidio silenzioso che si consuma di fronte a noi con regolarità quotidiana?
Secondo Francesca Spano, “capiamo della realtà tutto ciò che non ci attraversa”. Andiamo in tilt o rimuoviamo alla grande le evidenze scomode che velano (o rivelano) non fuori, ma dentro ciascuno di noi, la resistenza dell’avversario responsabile delle nostre sconfitte. Capiamo solo ciò che ci rassicura e non accettiamo le spiegazioni che ci spiazzano e ci mettono in discussione. Ecco perché non convince la “identità a tutto tondo” di Antonio Giolitti solitario, profetico e coraggioso, contrapposta all’immagine di Pietro Ingrao pavido, tormentato ma obbediente. Così si rischia di fabbricare l’ennesimo stereotipo che consola o semplifica, ma non spiega una realtà e uno scontro che hanno avuto bisogno di altro tempo e di altri conflitti perché il comunismo novecentesco arrivasse alla bancarotta.
Il carattere totalitario di quei regimi, il legame di ferro con Mosca dei partiti comunisti dell’Occidente, il centralismo democratico che soffocava o edulcorava ogni dialettica interna, l’alleanza fra chi temeva di perdere la libertà e chi temeva di perdere la proprietà: questi furono alcuni fattori decisivi – non certo Gladio e la Cia – all’origine della conventio ad excludendum che negò ai comunisti il consenso necessario per accedere al governo.
Tuttavia – dice Alberto Tridente – i comunisti italiani avevano conquistato la loro legittimazione democratica a governare con la partecipazione determinante alla Resistenza, alla Costituzione repubblicana, alla ricostruzione democratica e produttiva dell’Italia distrutta dal fascismo e dalla guerra.
Di questo si è discusso il 10 novembre alla Sala Conferenze di via Brignone. Senza pretendere di fornire ricostruzioni organiche e sistematiche dei fatti ungheresi, la serata ha proposto interrogativi e curiosità non conformistiche e non scolastiche ad un pubblico numeroso e attento di amici diessini, rifondaroli, cattolici. Al dibattito, organizzato dal Circolo “Teresa Noce” in un clima aperto e non competitivo, hanno preso la parola anche Domenico Bastino, Nino Contu, Mario Dellacqua, Domenico Ferrero e Aldo Sandullo.